CONTENZIONI E ORDINE COSTITUITO NELLE ISTITUZIONI DI CURA.
TESTIMONIANZA DI UN COMPAGNO
Non ambientato in SPDC o comunità psichiatriche ma in vari reparti di ospedali pubblici, dove le persone, prevalentemente anziane, sono ricoverate per problematiche di natura clinica, ossia patologie diagnosticabili su basi oggettive. Molte anamnesi contengono anche patologie psichiatriche. Anno 2019.
Mi appropinquo verso l’edificio «a blocchi» per prendere servizio.
Oltre le mura un leprotto saltella sull’asfalto in prossimità di rigogliosi cespugli.
Sulla soglia dell’ingresso il vigilante impettito. Timbro il cartellino e percorro un lungo corridoio. Incontro la direttrice che non mi saluta, mi lancia un fulminante sguardo arcigno soffermandosi sulla maglia del gruppo. Il soffitto è basso, sento il suo peso sulla testa.
Ci sono giorni in cui per sfuggire a questa sensazione di claustrofobica oppressione salgo su per le scale; lungo il percorso per arrivare allo spogliatoio ci sono due porte pesanti da aprire che delimitano un tugurio in cui sono installati due distributori automatici di divise. Il distributore emette una voce robotica e metallica che mi dà istruzioni e al termine dell’operazione mi augura una buona giornata.
Un ascensore mi porta ai piani alti; gli spostamenti in verticale sono meno opprimenti, se vai in orizzontale hai il peso del soffitto basso addosso.
Ennesima porta pesante. Sono all’interno dell’ unità operativa, in guardiola uno dei tanti crocefissi affisso in alto sulla parete.
Consegne del mattino: «paziente smanioso, affaccendato, la terapia per l’insonnia non ha avuto beneficio, si contatta medico di guardia per altra prescrizione».
Giudizio clinico: smanioso, affaccendato.
Osservazioni su quanto siano psichiatriche o comunque «particolari» (testuali parole) molte persone, troppe persone, nemmeno i familiari hanno scampo e sono esenti da giudizio.
Per chi ha comportamenti strani o scomodi viene richiesta consulenza psichiatrica urgente, soprattutto se hanno già un’etichetta diagnostica. Se non hanno una diagnosi il pre/giudizio
resta informale, bisogna comunque garantire a tutti una terapia per l’insonnia.
Sono particolari, non attendibili, malati mentali perchè farneticano su quanto siano venduti i sindacati; ribelli e sovversivi, ingestibili perchè in grado di recarsi al bagno e rifiutano il pannolone; sono matti perchè ti chiedono come mai quella mattina si tardi nel «lavaggio automatico dei culi».
Devono essere legati perchè potrebbero cadere, potrebbero diventare pericolosi.
Diagnosi medica di G: agitazione psicomotoria.
Prescrizione medica per G: contenzione h 24.
G legge un libro di poesie in greco, assume puntualmente le sue goccine di benzodiazepina senza fare storie, non ama l’ordine, è sempre circondata dai suoi oggetti attorno al letto, non vuole che vengano riposti dentro l’armadio.
Consegne su G: G la contenzione non la vuole, si incazza se viene sottoposta a coercizione.
Interventi da attuare: mantenere un approccio dolce e affabile per persuaderla e convincerla ad accettare il trattamento.
Alle mie consegne tanto disappunto, avrei dovuto rispettare la prescrizione medica per ovviare ad eventuali contenziosi legali.
Ho parlato con G, avrebbe voluto studiare medicina. Ne scaturisce un discorso sul paradigma medico dominante. G era la persona che sentivo più vicina a me. Conosceva Antonucci, era suo amico.
X è legato al polso. Viene lavato e posturato legato. Mi accingo a slegarlo durante la mobilizzazione per evitare che la fascia gli provochi traumi o lesioni. La collega veterana mi ordina di non slegarlo.
V ha avuto una vita turbolenta, ha una diagnosi psichiatrica ed è in trattamento riabilitativo
post evento cerebro-vascolare (è un reparto di «riabilitazione»!). Un giorno cade, viene legato
h 24. Tenta di liberarsi, capisce come farlo.
Consegne su di lui: «psichiatrico ma mica scemo, ha capito come scappare».
V trascorre cosi molti giorni finchè non diventa complice lui stesso, con la compiacenza e il gaudio delle colleghe: utilizza il dispositivo di chiamata per segnalare ai suoi aguzzini che il compagno di stanza, ex abusatore di sostanze e quindi da contenere, era riuscito a liberarsi dalla coercizione.
Notte: una donna non dorme, urla, malgrado i miei tentativi di rassicurazione.
E’ l’unica che non dorme, la compagna di stanza dorme mentre resta legata perchè la figlia vuole che sia sempre legata.
Silenzio intorno, odo gli schiamazzi dei colleghi del reparto adiacente, ridacchiano fragorosamente. Non so di cosa parlassero ma so che i loro argomenti vertono principalmente su modalità di accalappiamento di donne. Qualche giorno dopo uno dei suddetti colleghi fomenta la discussione, mi redarguisce per non aver somministrato la terapia per l’insonnia.
Era stato proprio lui a insegnarmi per primo che i ritmi e i tempi devono essere ben scanditi e rispettati. Aggiunge che ha capito la mia linea di pensiero «in primis il paziente» ma non è compatibile con le esigenze aziendali, mi devo adattare.
Gli chiedo come mai sia stato possibile slegare le persone in manicomio.
«Ma di quali tempi parliamo?»
«Beh, anni 60-70, te lo devo dire?»
«Ah ma a quei tempi i medici erano competenti, te li stabilizzavano farmacologicamente e non avevi bisogno di legarli».
La moglie di un assistito rifiuta la contenzione, non presta il suo consenso. E’ disposta a rimanere tutta la notte pur di scongiurare la tortura, ma ogni tanto vorrebbe uscire per fumare una sigaretta. Ma non si può, siamo in ospedale. Le porte sono chiuse. Possono entrare solo gli addetti alle retate notturne per la sicurezza e i dirigenti per accertarsi che le badanti abbiano i documenti in regola.
A non parla, non si muove. Si muove solo per aggrapparsi alle sponde del letto perennemente alzate. Ma mangia, mangia molto, una volta ha cercato di ingerire un batuffolo di garza.
Per lui contenzione al bisogno. Le sue condizioni cliniche sono in costante peggioramento, forse si sta avvicinando al momento della sua dipartita ma non è ancora accertato. Per lui neurolettico in cronico.
M si dimena per il dolore, è grave, forse terminale, viene legata per contenere l’agitazione.
B è immobilizzata da un tutore a seguito di un politrauma. Ha sempre dolore, un pò alleviato dai farmaci analgesici. E’ irrequieta, non riesce a trovare tregua o un attimo di comfort, soprattutto la notte. Ha sul letto un pupazzino. Sembra disorientata ma ha trovato da sola la sua personale strategia per distrarsi dal dolore, fissa la parete e mi descrive le immagini che vede. E’ una delle tecniche non farmacologiche di gestione del dolore tanto propinate in sede accademica che quando viene praticata, soprattutto per iniziativa della persona stessa, per di più giudicata matta e disorientata, diventa una bizzarria. La figlia di B lavora nel settore
socio-sanitario, sa che sua mamma spesso si agita e quindi ha ritenuto opportuno prestare di sua spontaneità volontà il consenso per la contenzione meccanica, stavolta mai applicata. B mi chiama
spesso scusandosi per il disturbo, mi chiede un farmaco per dormire affinchè possa dormire anch’io, anche se sono a lavoro, perchè è giusto che mi paghino anche se dormo, anzi dovrebbero pagarmi anche se dormo sul letto di casa mia. Una sorta di riconoscimento dell’ozio, dei sogni e dei bisogni fisiologici? E’ matta.
C ti dice che accetta la fascia, quella fascia che da piccolo pensavo si usasse solo per le esecuzioni capitali. Ma è troppo stretta, la accetta ma la vuole più larga. Io la toglierei proprio la fascia, ma i colleghi, le colleghe, i familiari, le persone più vicine e care al condannato no.
La fascia è necessaria, altrimenti si rischia che la persona si svegli capovolta sul letto, con la testa al posto dei piedi e viceversa.
Ora sono una recluta in altro posto, dove non si lega tutti i giorni, ma si fa sorveglianza, cosi la definiscono, talvolta si somministrano depot, sedativi in estemporanea e goccine o compresse per l’insonnia. Ho sorvegliato J. Ha un’emiplegia ma se la cava da solo, riesce anche a mettersi le scarpe; non chiede mai aiuto, non ha bisogno di stimoli ed esortazioni per compiere le attività in autonomia. Ho sorvegliato J aiutandolo a scendere dal letto, abbassando le sponde di reclusione contro cui si ribella. Non chiama mai ma quando vede le sponde alzate si fa sentire. Al cambio il collega lo costringe al letto e alza le sponde intimandogli di fare il bravo. J è un migrante senza fissa dimora, vuole evadere, apre le porte e scatta l’allarme. J tiene sotto la schiena una borsa che contiene un permesso di soggiorno scaduto e tante monetine che spesso mi offre affinchè vada a prendergli qualcosa da bere e mangiare. Se cerchi di spostare la borsa per farlo dormire più comodo si sveglia e la stringe forte con le braccia. J mi ha chiesto perchè non ho un letto per dormire come lui. Arriva il vitto, lo invito a sedersi ma lui cambia postazione, quella sedia è per me. Mi aspetto che fagociti tutto istantaneamente, invece mi chiede di sedermi accanto a lui e condividere il pasto.
Poi mi hanno trasferito in altro repartino, sempre all’interno della stessa azienda sanitaria, una delle più all’avanguardia e innovative in Italia, in quanto a tecnologie biomediche.
C’è N in questo repartino, che esterna pensieri senza senso logico, pensieri apparentemente privi di senso, carichi di significato, vissuti e angosce.
N è legato ai polsi, in cartella la prescrizione/autorizzazione medica, autorevole legittimazione che esenta gli infermieri e le infermiere da ogni preoccupazione, in modo che possano agire senza il minimo turbamento,
nell’indifferenza più totale, comunicando in consegna la sua coercizione e la necessità di perpetuarla con toni quasi sadici. Cosi mi è parso, ma magari sarò io eccessivamente sensibile. Ma forse è il caso di allentare le fasce perchè ci sarà la visita medica, in modo da rendere più agevole ai medici il loro lavoro di studio e osservazione di quel corpo umano.
Vado io, non allento, lo slego, rimane immobile nella stessa posizione. N si agita e si oppone solo quando sente mani estranee che fanno manovre su di lui che non può capire (magari i farmaci fanno la loro parte), che nessuno cerca di fargli capire.
Nello sconforto e nell’esasperazione, dopo aver tentato invano un confronto coi colleghi, le colleghe, coordinatrici…mi sono rivolto a un ente istituzionale, nel tentativo di sollevare la questione e avviare una discussione e una presa di coscienza collettiva sul problema, da parte della categoria professionale e non solo, col bisogno di condivisione e di espressione, pur avendo ormai interiorizzato da tempo sfiducia nelle istituzioni. Colloqui tra presidenti e avvocati, rimpalli, stesure di carte, segnalazioni formali. Sono stato elogiato per essermi rivolto a un organo che ha compiti sanzionatori, di vigilanza, sorveglianza… Ho chiesto un feedback su quali siano stati gli esiti, su come proseguire. L’avvocato non ne sa niente, ha svolto il suo compito di stesura della carta. Ha rimandato al detentore del potere/sapere sulla questione, che non mi ha risposto.
Nessuna risposta, e la cosa non mi stupisce.