Ma ci sono, vero?, decine, centinaia di pazzi che girano in libertà, per la ragione che la vostra ignoranza è incapace di distinguerli dai sani. E perché mai, dunque, io e questi altri disgraziati dobbiamo stare rinchiusi qui dentro per conto di tutti, come capri espiatori? Voi, l’assistente, l’ispettore e tutta la vostra feccia ospedaliera siete, dal punto di vista morale, senza paragone più in basso che ciascuno di noi: perché dunque noi stiamo rinchiusi, e voi altri no? Dove sta la logica?
REPARTO NUMERO 6
(prima edizione: 1892)
CAPITOLO PRIMO
Nel perimetro dell’ospedale sorge un piccolo padiglione circondato da un vero e proprio bosco di cardi, d’ortica e di canapa selvatica. Il tetto è tutto rugginoso, il comignolo è per metà crollato, gli scalini alla porta d’ingresso si sono imputriditi e ricoperti d’erba, e dell’intonaco non è rimasto che qualche traccia. Con la facciata anteriore il padiglione guarda all’ospedale, con quella posteriore alla campagna, da cui lo separa il grigio recinto dell’ospedale, irto di chiodi. Questi chiodi, voltati con la punta all’insù, e il recinto, e il padiglione stesso, hanno quell’aria particolare di squallore e di dannazione, che da noi in Russia è una prerogativa degli stabilimenti ospedalieri e carcerari.
Se non avete timore delle scottature d’ortica, inoltriamoci per lo stretto sentiero che conduce al padiglione, e guardiamo che cosa succede là dentro. Aperta la porta d’ingresso, entriamo nell’atrio.
Qui, alle pareti e intorno alla stufa, si ammassano vere e proprie montagne di rifiuti d’ospedale. Materassi, vecchie tuniche lacere, pantaloni, camiciotti rigati di blu, calzature logore, inservibili, sono tutto un ciarpame ammassato a mucchi, che sta lì a marcire e manda un tanfo soffocante.
Sul ciarpame, con la pipa tra i denti, se ne sta coricato il guardiano, Nikita, vecchio soldato in congedo dai galloni divenuti rossastri. Costui ha un viso aspro e segaligno, con certe ciglia aggrondate che lo fanno rassomigliare a un cane da pastore delle steppe, e il naso ben rosso; è di statura piuttosto piccola, magrolino e nervoso in apparenza, ma ha un portamento che si impone, e due pugni ben saldi. Egli appartiene al novero di quegli uomini ingenui, positivi, disciplinati e ottusi, la principale passione dei quali è che tutto sia in regola, e quindi sono convinti di esser tenuti a picchiare. E lui picchia, in faccia, sul petto, sulla schiena, dovunque gli capiti, persuaso com’è che, se non facesse così, le cose, qui dentro, non sarebbero in regola.
Più avanti vi si apre un grande, spazioso camerone che occupa l’intero padiglione, a non contarci l’atrio. Qui le pareti sono tinte d’un sudicio azzurro, e il soffitto è annerito come in una di quelle isbe fumicose: ciò che fa intendere che qui dentro, l’inverno, le stufe fanno fumo, e l’atmosfera si fa asfissiante. Le finestre, dal lato interno, sono deturpate da grate di ferro. L’impiantito è grezzo e irto di schegge. Domina un tanfo di cavoli acidi, di bruciaticcio di stoppini, di cimici e di ammoniaca; ed è un tanfo che in un primo momento produce su di voi un’impressione, come se entraste in un serraglio.
Nel locale ci sono dei letti inchiavardati all’impiantito. E sui letti siedono o stanno coricati degli uomini in camici da ospedale turchini, con papaline all’antica sul capo. Sono i mentecatti.
Ce n’è, qui, cinque in tutto. Uno solo è di famiglia distinta, mentre gli altri sono tutti del popolino. Il primo, a contar dalla porta, è un alto, macilento artigiano dai rossi baffi imponenti e dagli occhi piagnucolosi: sta lì seduto sostenendosi la testa, e fissa sempre in un punto. Nel registro dell’ospedale la sua malattia è definita ipocondria, ma in realtà egli è affetto da paralisi progressiva.
Giorno e notte non fa che crucciarsi, scrollando la testa, sospirando e facendo amari sorrisi: ai discorsi degli altri prende parte raramente, e alle domande, di regola, non dà risposta. Mangia e beve in modo macchinale, quando gliene danno. A giudicare dal tormentoso, accanito tossire, dalla magrezza, e dal rossore degli zigomi, deve avere un principio di tisi.
Viene dopo di lui un piccolo, vispo, irrequietissimo vecchietto, con la barbetta appuntita, e i capelli neri, crespi come quelli d’un negro. Durante il giorno costui passeggia avanti e indietro per lo stanzone da una finestra all’altra, o se ne sta a sedere sul suo letto con le gambe incrocicchiate alla turca, e con la instancabilità di un fringuello marino continua a fischiettare, a cantarellare e a squittir dal ridere. Quest’infantile allegrezza e vivacità di carattere, l’ometto la manifesta anche di notte, quando si leva su per fare le sue preghiere, vale a dire, picchiarsi coi pugni contro il petto e tracciare ghirigori col dito sull’uscio. E’ l’ebreo Moisejka, un demente che è impazzito vent’anni fa, quand’ebbe distrutta da un incendio la sua fabbrica di cappelli.
Di tutti gli inquilini del reparto numero 6, a lui solo è permesso uscire dal padiglione e perfino dal recinto dell’ospedale, nella pubblica via. E’ questo un privilegio di cui gode da un pezzo, grazie alla sua anzianità di ricoverato e alla calma, innocua demenza, che ne fa una specie di buffone della città, dov’è ormai un’abitudine vederlo per le strade fra un crocchio di monelli e di cani. Con quella sua tunichetta indosso, con quella grottesca papalina, in pantofole e a volte a piedi nudi, o addirittura senza calzoni, egli gira per le strade soffermandosi ai portoni e alle botteghe, a chiedere il soldino. In un posto gli danno del kvas, in un altro del pane, in un terzo un soldino, di modo ché fa ritorno al padiglione, ordinariamente, ricco e satollo. Tutto quanto riporta con sé, Nikita glielo ritoglie a suo uso e consumo. E quest’operazione è eseguita dal soldato in maniera brutale, con stizza, tanto che, mentre gli va rovesciando le tasche, chiama Iddio a testimonio che mai più, da oggi in poi, permetterà che l’ebreo esca in strada, giacché il disordine, per lui, è la peggior cosa del mondo.
Moisejka fa volentieri i piaceri agli altri. Dà da bere ai compagni, li copre mentre dormono, promette a ciascuno di portargli da fuori un soldino, e di cucirgli un copricapo nuovo: ed è lui che imbocca col cucchiaio il suo vicino di sinistra, il paralitico. Agisce così non per compassione, o perché pensi che questo sia un obbligo d’umanità, ma per semplice spirito d’imitazione e per un’inconscia sottomissione al suo vicino di destra, Gromov.
Ivan Dmitric Gromov, un trentatreenne di nobili origini, già usciere di tribunale e segretario di governatorato, soffre di mania di persecuzione. Egli, o sta allungato sul letto, acciambellato su se stesso, o cammina su e giù, come per far del moto: a sedere rimane assai di rado. E’ sempre allarmato, agitato in balìa di non so che confusa, indefinibile attesa. Basta il minimo rumore dall’atrio, o un grido da fuori, perché egli sollevi la testa e si protenda tutto in ascolto: non sarà per lui che vien qualcuno? non sarà lui che cercano?
E il suo viso, mentre sta così in sospeso, esprime la più profonda inquietudine e contrarietà.
A me piace, così largo di zigomi, questo suo viso sempre pallido e afflitto, che riflette come uno specchio la sua anima tormentata dai contrasti e da un perpetuo terrore. Le smorfie che fa sono stravaganti e morbose, ma le sottili rughe, di cui la profonda, intima sofferenza gli ha solcato il viso, sono piene di intelligenza e di spiritualità, e nei suoi occhi c’è una tiepida luce da persona sana. E tutto di lui mi piace, cortese com’è, servizievole e straordinariamente delicato nei rapporti con tutti, eccettuato Nikita. Non appena qualcuno lascia cadere un bottone, o un cucchiaio, lui lesto lesto salta giù dal letto e lo raccatta. Tutte le mattine saluta i compagni con un bel “buongiorno”, e quando si fa l’ora di dormire, augura loro la buona notte.
Oltre che la continua tensione dell’animo, e i contorcimenti del viso, la sua follia ha anche quest’altra manifestazione. Avviene che, certe sere, si avvoltoli ben bene nel suo misero camice e, tremando in tutte le membra, battendo i denti, si metta a camminare in fretta su e giù per la stanza, e fino tra i giacigli. Si direbbe che fosse in preda a una febbre violenta. Dal modo repentino con cui a tratti si ferma, e si fa a guardare i compagni, si indovina che ha in animo di dire qualcosa di grande importanza: ma poi riflettendo, evidentemente, che nessuno lo ascolterebbe, e lo intenderebbe, con un atto impaziente scrolla la testa e continua a sgambare. Sennonché, di lì a poco, la voglia di parlare prevale su qualsiasi considerazione, ed egli, concedendo a se stesso piena libertà, parla con ardore, appassionatamente. E’ un discorrere disordinato, il suo, febbrile, simile a un delirio: pieno di sbalzi, tanto che non sempre riesce intelligibile; ma in compenso ne risuona, sia dalle parole, sia dal timbro, qualcosa di straordinariamente simpatico. In questi momenti in cui parla, voi riconoscete in lui un pazzo e insieme un uomo. Non sarebbe facile riportare qui per iscritto la sua dissennata eloquenza.
Egli parla della bassezza umana, della violenza che calpesta la giustizia, della mirabile vita che, col passar del tempo, si instaurerà sulla terra, di queste finestre inferriate che gli vengono prospettando, istante per istante, l’ottusità e la ferocia dei prepotenti. E ne risulta un disordinato, sconclusionato guazzabuglio di vecchie, ma non ancora scontate canzoni.
CAPITOLO SECONDO
Dodici o quindici anni or sono, viveva in città, proprio nella via principale, in una casa di sua proprietà, l’impiegato Gromov, uomo posato e agiato. Egli aveva due figli: Sergej e Ivan. Quando ormai era studente di quarto anno d’università, Sergej si era ammalato di tisi galoppante, ed era morto: e questa morte sembrava aver dato la stura a tutta una serie di sventure, che d’improvviso si erano abbattute sulla famiglia Gromov. A una settimana di distanza dai funerali di Sergej, il vecchio padre era stato deferito alla giustizia per falso e peculato, e poco dopo era morto di tifo all’infermeria del carcere. La casa e tutti i beni mobili erano stai venduti all’asta, e Ivan Dmitric e sua madre erano rimasti senza alcun mezzo di sussistenza.
Finora, mantenuto dal padre, Ivan Dmitric aveva ricevuto a Pietroburgo, dove seguiva i corsi universitari, un mensile di sessanta o settanta rubli, e non aveva avuto la più lontana idea di cosa fosse il bisogno: ora, bruscamente, gli toccava di mutar da fondo la sua vita. Si trovò costretto a dare da mattina a sera ripetizioni per pochi centesimi, a prendere lavori di copiatura e, nonostante tutto, a soffrire la fame, giacché tutto il guadagno bisognava spedirlo alla madre per il suo sostentamento. A una vita cosiffatta, Ivan Dmitric non aveva potuto reggere: si era abbattuto di spirito, si era infiacchito e, abbandonando l’università, era ripartito per casa sua.
Qui, nella nostra cittadina, aveva ottenuto, grazie a una protezione, un posto di maestro nelle scuole del capoluogo: ma non si era affiatato coi colleghi, non era andato a genio agli allievi, e ben presto aveva abbandonato il posto. La madre era morta. Per circa mezzo anno, era rimasto senza occupazione, nutrendosi soltanto di pane e acqua; poi era stato assunto come usciere al tribunale. E questo posto era stato da lui tenuto fino al giorno in cui ne era stato allontanato per la sua malattia.
Egli non aveva mai dato, neppure nei verdi anni quando era studente, l’impressione di star bene in salute. Era sempre stato pallido, emaciato, facile ai raffreddori; mangiava poco, dormiva male. Bastava un bicchierino di liquore per fargli girar la testa e provocargli le convulsioni. Aveva un gran desiderio di avvicinare gli altri, ma, a causa del suo carattere irritabile e della sua ombrosità, non stringeva mai confidenza con nessuno, e non aveva amici. Dei terrazzani era solito parlar con disprezzo, dicendo che la loro grossolana rozzezza, e l’assonnato, bestiale giro di vita, gli parevano detestabili, repellenti. Parlava con un timbro tenorile, a voce alta, con ardore, e ogni volta aveva un tono, o di sdegno e di risentimento, o di entusiasmo e di ammirazione; ma sempre parimenti sincero. Qualsiasi argomento si affrontasse con lui, egli finiva sempre per tornare allo stesso punto: in questa città la vita era angusta, era uggiosa, la miglior società non aveva interessi elevati, menava una vita opaca e insensata, cercando divario nella violenza, nella brutale dissolutezza e nell’ipocrisia; i mascalzoni sono sazi e ben vestiti, mentre gli onesti si cibano delle loro briciole; occorrono scuole, un giornale locale inspirato a onesti princìpi, un teatro, conferenze pubbliche, solidarietà tra le forze intellettuali; occorre che la società prenda coscienza del proprio stato, e ne inorridisca. Nei giudizi che faceva della gente, egli adoperava colori crudi, nient’altro che bianco e nero, senza ammettere sfumature di sorta: l’umanità, per lui, si divideva in onesti e mascalzoni:
qualcosa di mezzo non esisteva. Delle donne e dell’amore, parlava sempre appassionatamente, con entusiasmo: ma non una volta che fosse stato innamorato.
In città, nonostante la bruschezza dei suoi giudizi e il suo nervosismo, gli volevano bene, e quando lui non sentiva lo chiamavano, affettuosamente, Vanja. L’innata sua delicatezza, la tendenza a prestarsi per gli altri, la compostezza di vita, la purezza morale, e quel suo logoro soprabituccio, quell’aspetto cagionevole, le sventure familiari, infondevano un senso di simpatia, cordiale e malinconico:
per non dire che si trattava di una persona ben educata, di molte letture, che (nell’opinione dei suoi concittadini) sapeva ogni cosa, e veniva ad essere, per la città, una specie di dizionario d’informazioni ambulante.
Leggere, era il suo forte. Se ne stava ore e ore là al club, a stiracchiarsi nervosamente la barbetta e a sfogliare giornali e libri:
e dal viso gli si vedeva che, piuttosto che leggere, trangugiava quel che aveva a malapena masticato. E’ lecito pensare che tutto questo leggere fosse una delle sue abitudini morbose, giacché con la stessa avidità si gettava su tutto quanto gli capitasse sotto mano, perfino sui giornali dell’anno prima e sui calendari. Quand’era in casa, leggeva sempre sdraiato sul letto.
CAPITOLO TERZO
Una mattina d’autunno, col bavero del capottino tirato su, e con le scarpe che gli schioccavano tra il fango, si trascinava, il nostro Ivan Dmitric, per vicoletti e per passaggi fuori mano, verso la casa di non so che borghesuccio, per riscuoterne gli atti esecutivi. Il suo umore era tetro, come sempre al mattino. Per uno di quei vicoletti, gli si pararono incontro due detenuti incatenati, scortati da quattro soldati col fucile. Assai spesso, prima di quel giorno, Ivan Dmitric aveva incontrato dei detenuti, e ogni volta costoro gli avevano destato un senso di compassione e insieme di sconcerto; ma oggi l’incontro provocò in lui un’impressione tutta particolare e stranissima. D’improvviso, chissà perché, venne a sembrargli che anche a lui avrebbero potuto mettere le catene, ed ecco, allo stesso modo di costoro, condurlo via tra il fango alle carceri. Dopo una sosta in casa del bottegaio, di ritorno a casa sua, s’imbatté, nei paraggi della posta, nell’ispettore di polizia, il quale lo conosceva e, salutandolo, fece con lui un breve tratto di strada: cosa che in qualche modo gli parve sospetta. In casa, per tutta quella giornata, gli rimasero fissi in mente quei detenuti e quei soldati col fucile, e un’inesplicabile inquietudine gli impediva di leggere e di concentrarsi. Quando fu sera, non accese il fuoco, e la notte non poté dormire: sempre continuava a pensare che lo avrebbero potuto arrestare, mettere in catene e rinchiudere in carcere. Egli non si riconosceva alcuna colpa, e avrebbe potuto garantire che anche in futuro non avrebbe mai ucciso, appiccato fuoco o rubato: ma che forse è una cosa tanto difficile compiere un delitto per caso, involontariamente, o forse è impossibile una qualche calunnia, o – alla fin fine – un errore giudiziario? Non per nulla la secolare esperienza del popolo ammonisce che, dalla sacca del mendicante e dalla galera, nessuno può ritenersi al sicuro. Tanto più che un errore giudiziario, con l’attuale procedura, può verificarsi benissimo, e non rappresenta nulla di straordinario. Gente per cui la sofferenza degli altri è materia d’ufficio, di mestiere, come ad esempio i giudici, i poliziotti, i medici, con lo scorrere del tempo, in forza dell’abitudine, si incalliscono a tal punto che magari vorrebbero, ma non possono trattar più i loro clienti in altro modo che non sia formalistico: e, sotto questo rispetto, costoro non differiscono in nulla dal contadino che, nel suo cortile, sgozza montoni e vitelli senza neppure far caso al sangue. Dato questo formalistico, insensibile atteggiamento, il giudice, per poter privare un innocente di tutti i diritti civili e condannarlo ai lavori forzati, ha bisogno d’una cosa sola: di un po’ di tempo. Solo il tempo che ci vuole per l’osservanza di talune formalità, per le quali viene pagato al giudice il suo stipendio: e poi, tutto è finito. Va’ a cercare, dopo, giustizia e difesa in questa piccola, sudicia cittaduzza, duecento miglia lontano dal treno! E non è addirittura grottesco fantasticar di giustizia quando ogni sorta di violenza viene accolta dalla società come una necessità razionale e giustificabile, e ogni atto di misericordia, come ad esempio un verdetto d’assoluzione, provoca una vera e propria esplosione di sentimenti di scontento e di vendetta?
La mattina seguente, Ivan Dmitric si levò pieno di terrore, con un sudore freddo alla fronte, persuaso com’era ormai che da un momento all’altro avrebbero potuto procedere al suo arresto. Una volta che i penosi pensieri del giorno prima tardavano tanto a lasciarlo (rifletteva egli), significa che doveva esserci in essi una certa dose di verità. Non era mai possibile, infatti, che gli fossero saltati in testa senza alcun motivo.
Una guardia di città, lentamente, passò sotto le sue finestre: non era una combinazione, questa! Ed ecco due individui fermarsi sotto la casa, e rimanere silenziosi. Perché mai rimanevano silenziosi a quel modo?
E allora, per Ivan Dmitric, sopravvennero giorni e notti pieni di tormento. Quanti passavano sotto le finestre, o entravano giù in cortile, gli avevano l’aria di spie e di delatori. Sul mezzogiorno, abitualmente, il capo della polizia attraversava con la sua pariglia su quella strada: era quando si recava dal suo possedimento sub-urbano all’ufficio di polizia; ma, a Ivan Dmitric, sembrava ogni volta che egli passasse a velocità eccessiva, e con non so quale singolare espressione: evidentemente, si affrettava a comunicare che in città era apparso un criminale pericolosissimo. Ivan Dmitric sussultava ad ogni scampanellata o bussata al portone; si sentiva venir meno quando in casa della padrona si trovava di fronte qualche sconosciuto; se incontrava i poliziotti o i gendarmi, sorrideva e fischiettava per dimostrarsi indifferente. Passava senza chiuder occhio una notte dopo l’altra, aspettandosi che lo arrestassero, ma badava a russare e a sospirare ben forte, come chi dorme, in modo che alla padrona sembrasse che lui stava dormendo: giacché, se non dormiva, allora voleva dire che era tormentato da rimorsi di coscienza: oh, che grave indizio sarebbe stato! I fatti, e la sana ragione, gli dicevano che tutti questi terrori erano assurdità, psicopatie; che nell’esser tratto in arresto e messo in prigione, a guardar la cosa con maggior larghezza, non c’era in realtà niente di tremendo purché la coscienza fosse tranquilla: ma quanto più lucido e logico era il suo giudizio, tanto più intensa e tormentosa gli si faceva l’inquietudine intima.
Era una situazione simile a quella di un esploratore che volesse ricavarsi un piccolo luogo nel vivo d’una foresta vergine: con quanto più accanimento lavorasse d’accetta, tanto più folta e possente la foresta gli ricrescerebbe intorno. Alla fine. Ivan Dmitric, vedendo che ogni sforzo era vano, smise del tutto di ragionarci sopra, e si abbandonò interamente alla disperazione e al terrore.
Cominciò a isolarsi e a fuggir la gente. Il suo impiego anche prima gli era stato odioso; ora poi gli diventò insopportabile. temeva che in un modo o nell’altro lo facessero trovare nei pasticci, gli infilassero di soppiatto in tasca del denaro sottratto all’ufficio, e poi lo denunciassero; o che lui stesso, inavvertitamente, potesse far nelle carte d’ufficio un qualche errore equivalente a un falso, o perdere del denaro altrui. Strano che mai, in vita sua, il suo pensiero non era stato così duttile e inventivo come in questo periodo, in cui ogni giorno escogitava a migliaia i più svariati motivi atti a farlo stare in apprensione per la propria libertà e il proprio onore. In compenso, però, gli si era notevolmente indebolito l’interesse per il mondo esteriore, specialmente per i libri, e la memoria cominciò ad affievolirglisi paurosamente.
A primavera, allo scioglimento delle nevi, in un burrone presso il camposanto furono ritrovati, mezzi imputriditi, due cadaveri – di una vecchia e di un ragazzo – che portavano i segni d’una morte violenta.
In città non si parlò più d’altro che di questi cadaveri, e degli ignoti assassini. Ivan Dmitric, affinché non si pensasse che l’assassino era lui, girava per le strade e sorrideva, e quando s’imbatteva in qualche conoscente, impallidiva, arrossiva e si faceva a proclamare che non c’è delitto più infame che l’assassinio di persone deboli e indifese. Ma questo continuo mentire fece presto ad estenuarlo e, fatte le sue riflessioni, decise che nella situazione in cui si trovava, la miglior cosa di tutte era di andare a nascondersi nella cantina della padrona di casa. Così in cantina si trattenne per una giornata, poi la notte e la giornata seguente, cosicché si intirizzì ben bene: e atteso che rifacesse buio, di soppiatto come un ladro, scivolò in camera sua. Fino allo spuntar del giorno restò là ritto in mezzo alla camera, senza muoversi di un pezzo, con le orecchie tese. La mattina per tempo, prima che levasse il sole, vennero dalla padrona dei fumisti. Ivan Dmitric sapeva perfettamente che gli operai erano venuti per riaggiustare la stufa in cucina, ma il terrore gli suggerì che poteva trattarsi di poliziotti travestiti da fumisti. Pian piano uscì dall’appartamento e, sopraffatto dall’orrore, senza cappello e senza soprabito, si diede a fuggir via per la strada.
Appresso, abbaiando, gli si lanciarono i cani, si sentì gridare a distanza un contadino, l’aria gli fischiò alle orecchie, e Ivan Dmitric ebbe l’impressione che la violenza del mondo intero si ammontasse alle sue spalle e si avventasse ad inseguirlo.
Fu fermato, ricondotto in casa, e mandarono la padrona a cercare un dottore. Il dottor Andrej Efimyc (di cui torneremo a parlare) prescrisse pezzuole fredde alla testa e gocce di lauroceraso; scrollò mestamente il capo e se ne andò, dopo aver detto alla padrona che non sarebbe tornato più, giacché non è cosa conveniente impedire alla gente di uscir di cervello. Siccome, lì in casa, non aveva alcun mezzo di vivere e di curarsi, ben presto Ivan Dmitric fu portato all’ospedale, e ivi assegnato al reparto delle malattie veneree. Egli passava le notti senza dormire, dava in smanie e disturbava i malati, e perciò, poco dopo, per disposizione di Andrej Efimyc, venne trasferito al reparto numero 6.
Da lì a un anno, in città, ci si era completamente scordati di Ivan Dmitric; e i suoi libri, buttati là dalla padrona nella slitta sotto la tettoia, andarono dispersi per mano dei ragazzi.
CAPITOLO QUARTO
Per vicino di sinistra (come ho già detto) Ivan Dmitric ha l’ebreo Moisejka; suo vicino di destra, invece, è un contadino affogato nel grasso, quasi sferico, con una faccia ottusa e assolutamente priva d’ogni barlume di pensiero. E’ un immobile, vorace e sudicio bestione, che ormai da un pezzo ha perduto ogni capacità di ragionare e di sentire. Da lui emana di continuo un acuto, soffocante fetore.
Nikita, quando lo deve custodire, lo picchia tremendamente, di tutta forza, senza risparmiare i propri pugni: e la cosa che impressiona non è che lo si picchi (a questo si può far l’abitudine), ma è vedere come quell’intontito bestione non risponde alle percosse né con un mugolio, né con un movimento qualsiasi, né con l’espressione degli occhi: non fa che dondolare leggermente, come una pesante botte.
Quinto e ultimo inquilino del reparto numero 6 è un borghesuccio, che fu addetto un tempo alla cernita della corrispondenza all’ufficio postale: piccolo, magro biondino dal viso buono, ma non privo d’astuzia. A giudicar dall’intelligente tranquillità dei suoi occhi, che vi guardano limpidi e allegri, si direbbe che crogioli nel cervello un segreto assai importante e piacevole. C’è, al di sotto del suo guanciale e del suo materasso, una cosa che egli non mostra ad anima viva, non già per timore che gli possa esser tolta o rubata, ma per un senso di pudore. Certe volte si fa alla finestra e, voltando la schiena ai compagni, s’infila qualcosa sul petto e si rimira, curvando la testa: se in quel momento gli si accostasse qualcuno, si turberebbe tutto, e si strapperebbe via quel qualcosa dal petto. Ma indovinare il suo segreto non è difficile.
– Fatemi i vostri rallegramenti – dice spesso a Ivan Dmitric. – Sono stato proposto per la decorazione di Stanislao di secondo grado, con la stella. Di secondo grado, con la stella, vien concessa soltanto agli stranieri, ma per me sembra che vogliano fare un’eccezione – e sorride, stringendo perplesso le spalle. – Certo che, siamo sinceri, non me l’aspettavo!
– Son cose, queste, di cui io non m’intendo! – dichiara imbronciato Ivan Dmitric.
– Ma sapete, un giorno o l’altro, che riuscirò ad ottenere? – continua l’antico impiegato dell’ufficio postale, con un astuto ammiccamento degli occhi. – Sarò insignito della “Stella Polare” svedese. E’ una decorazione, quella, per cui val la pena di brigare un pochino! La croce è bianca e il nastro è nero. Forma davvero un bell’insieme.
Probabilmente, non c’è altro luogo al mondo in cui la vita sia monotona come in questo padiglione. Al mattino, gli ammalati, eccetto il paralitico e il grosso contadino, si lavano nell’atrio a una grande tinozza, e si asciugano coi lembi delle tuniche; fatto questo, dalle loro gamelle di stagno, prendono il tè che Nikita porta qui dal fabbricato centrale. A ciascuno ne tocca in ragione di una gamella. A mezzogiorno mangiano la zuppa di cavoli acidi e la polenta, e la sera cenano con la polenta avanzata dal desinare. Nell’intervallo tra i pasti, stanno sdraiati, dormono, guardano dalle finestre e camminano avanti e indietro. E così tutti i giorni. L’antico impiegato dell’ufficio postale, anche lui, non fa che parlar sempre delle stesse decorazioni.
Persone nuove è raro vederne, al reparto numero 6. Altri mentecatti, il dottore non ne accetta da un pezzo, e dei curiosi di visitare i manicomi ce n’è pochi a questo mondo. Una volta ogni due mesi, viene al padiglione Semen Lazaryc, il barbiere. In che modo egli tosi i mentecatti, e Nikita lo aiuti nell’operazione, e in quale agitazione cadano gli infermi ogni volta che il barbiere, sorridente e ubriaco, fa la sua comparsa, non staremo a raccontarlo.
Oltre il barbiere, non c’è nessuno che si affacci al padiglione. I ricoverati sono condannati a vedere, in perpetuo, soltanto Nikita.
Sennonché, di recente, nell’ambiente dell’ospedale si è sparsa una voce abbastanza singolare.
Han cominciato a sussurrare che al reparto numero 6 si recasse tratto tratto, da un po’ in qua, il dottore.
CAPITOLO QUINTO
Singolare diceria!
Il dottor Andrej Efimyc Ragin è, nel suo genere, un uomo non comune.
Dicono che nella prima gioventù egli fosse molto devoto, tanto da aver l’intenzione di seguire la carriera ecclesiastica; e che infatti, terminati nel 1863 i suoi studi ginnasiali, volesse entrare in seminario; se il padre, dottore in medicina e chirurgo, non lo avesse acerbamente schernito, e non gli avesse dichiarato categoricamente che non lo avrebbe più considerato suo figlio, nel caso che egli si fosse fatto pope. Quanto ci sia di vero in tutto questo, non saprei; ma Andrej Efimyc, di propria bocca, ha confessato più d’una volta di non aver mai sentito alcuna vocazione per la medicina e le scienze in genere.
Comunque fosse, terminati gli studi alla facoltà di medicina, egli non indossò l’abito talare. Grande devozione, non ne dava a vedere, e fin d’allora, al principio della sua carriera medica, aveva tanto poco del sacerdote quanto adesso.
La sua figura è pesante, grossolana, contadinesca; con quel viso, con quella barba, con quei capelli piatti, e con quella goffa, solida complessione, ricorda un oste di strada maestra, mangione, intemperante e sgarbato. Ha il viso duro, ricoperto di venuzze turchine; gli occhi piccoli; il naso rosso. Alto di statura e largo di spalle, ha pure mani e piedi da colosso: si direbbe che se ti agguanta col pugno, ti conviene sputar l’anima. Ma il passo lo ha leggero e l’andatura discreta, furtiva; se lo incontri in un corridoio stretto, è sempre lui il primo a soffermarsi, per cedere il passo, e anziché con un timbro di basso (come ci si aspetterebbe), ti dice con un’esile, morbida voce tenorile: “Scusatemi!” Sul collo ha un’escrescenza non grossa, ma che gli impedisce di portare colletti inamidati, cosicché usa andare sempre in camicia di tela o di percalle alla Robespierre. E, nell’insieme, il suo modo di vestire è tutt’altro che da dottore. Lo stesso abito, se lo trascina indosso dieci anni di fila, e quando se ne fa uno nuovo (comprandolo, di solito, nel negozietto di qualche ebreo), gli figura altrettanto logoro e sgualcito che se fosse vecchio; così pure, con la stessa giacca riceve i malati, mangia e va per i salotti: ma fa così non per avarizia, bensì per una completa trascuranza del suo aspetto esteriore.
Allorché Andrej Efimyc era arrivato in questa città per espletarvi le sue mansioni, l'”istituto di carità” si trovava in uno stato pietoso.
Nelle corsie, nei corridoi e nel cortile dell’ospedale c’era un fetore che mozzava il respiro. I contadini addetti all’ospedale, gli infermieri e i loro figli dormivano per le corsie mischiati ai malati.
Era una lamentela generale che scarafaggi, cimici e topi non davano scampo. Nel reparto chirurgico, non si riusciva ad estirpare la resipola. In tutto l’ospedale c’erano soltanto due scalpelli e neppure un termometro; nei bagni ci tenevano le patate. L’ispettore, la magazziniera e l’assistente medico rubavano a man salva a danno dei malati, e quanto al vecchio dottore che aveva preceduto Andrej Efimyc, dicevano che si dedicava alla vendita clandestina dello spirito dell’ospedale e, tra infermiere e donne ricoverate, avesse messo su un vero e proprio harem. In città si era perfettamente al corrente di questi disordini, e anzi si esageravano, ma si consideravano con molta calma: alcuni ci trovavano una giustificazione nel fatto che all’ospedale son ricoverati esclusivamente borghesucci e contadini, i quali non hanno diritto di lamentarsi, dato che a casa loro vivono assai peggio che all’ospedale: non avran mica preteso di esser mantenuti a fagiani! Altri, a mo’ di giustificazione, dicevano che la città da sola, senza l’aiuto dell’amministrazione provinciale, non era in grado di mantenere un buon ospedale: si poteva ringraziare Iddio che, seppur cattivo, c’era. E, dal canto loro, i giovani membri dell’assemblea provinciale non decidevano l’apertura di una clinica né in città, né nei dintorni appellandosi al fatto che la città possedeva di già il suo ospedale.
Osservato ben bene questo ospedale, Andrej Efimyc era giunto alla conclusione che si trattava di un’istituzione immorale e altamente nociva alla salute dei ricoverati. A suo modo di vedere, la cosa più intelligente che si potesse fare, era di rilasciare i malati in libertà, e chiudere l’ospedale. Ma poi considerò che per far questo non sarebbe stata sufficiente la sua sola volontà, oltre che non sarebbe servito a nulla: la sporcizia materiale e morale, cacciata da un posto, si sarebbe trasferita in un altro; bisognava aspettare che essa, di per sé, si volatilizzasse. Inoltre, se la gente di qui aveva aperto l’ospedale, e lo tollerava nella propria città, voleva dire che ne aveva bisogno: quei pregiudizi, tutte quelle sconcezze e turpitudini della vita quotidiana, erano necessarie, dato che con lo scorrere del tempo sarebbero venute a trasformarsi in qualcosa di ordinato e di efficiente, come il letame in terra nera. Su questa terra non c’è cosa talmente buona che alle sue prime fonti vada immune da ogni bassezza.
Accettato ormai l’incarico, Andrej Efimyc assunse di fronte ai disordini un atteggiamento, a quanto pareva, abbastanza placido. Pregò soltanto i contadini addetti all’ospedale e le infermiere di non pernottare nelle corsie, e diede in dotazione due armadi pieni di strumenti chirurgici; e quanto all’ispettore, alla magazziniera, all’assistente medico e alla resipola del reparto di chirurgia, tutti rimasero ai loro posti.
Andrej Efimyc ama straordinariamente la ragione e l’onestà, ma per dare alla vita che lo circonda una sistemazione ragionevole e onesta, gli fanno difetto il carattere e la fede nel proprio diritto. Dare ordini, imporre divieti e insistere, sono cose che proprio non gli riesce di fare. Si direbbe che egli avesse fatto il voto di non alzar mai la voce e di non far mai uso del modo imperativo. Dire “dà” o “porta”, costituisce per lui una difficoltà; quando ha voglia di mangiare, dà un colpetto di tosse indeciso e dice alla cuoca: “Se mi portassi il tè…” oppure: “Se io pranzassi…” Dire poi all’ispettore che la smettesse di rubare, o cacciarlo dalla porta, o anche abolire addirittura quell’inutile, parassitica incombenza, supererebbe assolutamente le sue forze. Quando questa gente si mette ad ingannare Andrej Efimyc, o a lisciarlo, o gli portano da firmare un conto scientemente falsato, lui diventa rosso come un gambero, e si sente colpevole, ma il conto tuttavia lo firma; e quando i malati si lagnano con lui della fame che devono patire, o delle infermiere che li trattano male, lui si confonde tutto, e in tono colpevole borbotta:
– Bene, bene, provvederò più tardi… Probabilmente, c’è qui un malinteso…
Nei primi tempi, Andrej Efimyc lavorava con gran diligenza. Riceveva ogni giorno dal mattino all’ora di desinare, eseguiva operazioni, e si prestava perfino all’assistenza ostetrica. Le signore dicevano di lui che era molto accurato, e che indovinava magnificamente le malattie, specialmente quelle dei bambini e delle donne. Ma con lo scorrere del tempo, il suo lavoro di medico finì per diventargli noioso anziché no, monotono com’era ed evidentemente inutile. Oggi visiti trenta malati, e domani, ecco là, te se ne accalcano alla porta trentacinque, dopodomani quaranta, e così giorno per giorno, anno per anno; e intanto la mortalità locale non diminuisce, e i malati continuano a venire. Porgere un serio aiuto a quaranta malati che si succedono in una mattinata, non è fisicamente possibile; e dunque, senza volerlo, ne viene fuori un inganno e nient’altro. Se, nell’anno contabile, i malati visitati sono stati dodicimila, questo significa in parole povere che si sono ingannate dodicimila persone. D’altra parte, ricoverare i malati gravi in corsia, e occuparsi di loro secondo le norme della scienza, è parimenti una cosa impossibile, giacché le norme ci sono, ma la scienza non c’è; e anche a mettere da parte la filosofia, e a seguire pedantescamente le norme, come fanno tutti i medici, innanzi tutto sono necessarie la pulizia e la ventilazione, non già la sporcizia, e una dieta salubre, non già la zuppa di cavoli acidi andati a male, e collaboratori per bene, non già ladroni.
Ma poi a che scopo impedire agli uomini di morire, se la morte è la fine normale e legittima di ciascuno? Che guadagno sarà mai, se un qualche venditoruccio o impiegatuccio riuscirà a sopravvivere per cinque, dieci anni di più? Che se poi il fine della medicina si volesse ravvisare nel fatto che i medicamenti alleviano le sofferenze, vien naturale di chiedersi: e perché alleviarle? In primo luogo, si usa dire che le sofferenze conducono l’uomo verso la perfezione, e in secondo luogo, se il genere umano pervenisse davvero ad alleviare le proprie sofferenze a furia di pillole e di gocce, allora getterebbe in disparte la religione e la filosofia, nelle quali finora ha trovato non solo una difesa da ogni sorte di sventure, ma anche la felicità.
Puskin, prima di morire, ebbe a provare crudeli tormenti; il povero Heine per parecchi anni giacque paralizzato: o perché dunque non dovrebbe ammalarsi un qualsiasi Andrej Efimyc, o una Matrena Savinja, la vita dei quali è priva d’ogni contenuto, e sarebbe assolutamente vuota e simile alla vita di un’ameba, se non fosse per le sofferenze?
Schiacciato da queste considerazioni, Andrej Efimyc si sentì cader le braccia, e cominciò a non recarsi più all’ospedale tutti i giorni.
CAPITOLO SESTO
La vita gli passa così. Si alza, di solito, alle otto, si veste e prende il tè. Poi si chiude in studio a leggere, oppure va all’ospedale. Qui, all’ospedale, in un angusto, buio corridoietto, stanno i malati dell’ambulatorio, in attesa di passar la visita.
Avanti e indietro, rumoreggiando con gli scarponi sull’ammattonato, corrono intanto contadini e infermiere, passano macilenti gli infermi in vestaglia, portano via i morti e i vasi con le sporcizie, frignano i bambini, e le correnti d’aria saettano. Andrej Efimyc sa benissimo che per i febbricitanti, per i tisici, e per i malati impressionabili in genere, è questo un quadro tormentoso: ma che farci? In sala da ricevere, gli viene incontro l’assistente, Sergej Sergeic, ometto massiccio dal viso rasato, ben strigliato e morbido, dalle maniere molli e untuose, in panni nuovi e abbondanti, somigliante a un senatore piuttosto che a un assistente medico. Costui, in città gode di un’immensa clientela, va in giro con la cravatta bianca e si reputa di gran lunga più competente del dottore, il quale non ha clientela affatto. In un angolo della stanza c’è una grande icona nel suo armadietto a vetri, con una pesante lampada innanzi, e di lato un candelabro avvolto di un velo bianco; alle pareti sono appesi ritratti di vescovi, una veduta del monastero di Svjatogorsk e ghirlandine di fiordalisi secchi. E’ religioso, Sergej Sergeic, e gli piacciono i begli ornamenti. L’icona è stata posta lì a sue spese; le domeniche, in questo stesso locale, qualcuno dei malati, ottemperando alle sue disposizioni, legge ad alta voce gli inni in onore del Signore e della Vergine e, terminata la lettura, Sergej Sergeic in persona fa il giro di tutte le corsie con il turibolo e le asperge d’incenso.
Di malati ce n’è tanti, ma di tempo ce n’è poco: e così tutto si riduce a un breve interrogatorio e alla distribuzione di qualche medicinale, un po’ di pomata, un po’ d’olio di ricino o roba del genere. Andrej Efimyc sta lì seduto, sostenendosi col pugno la gota, immerso in pensieri, e macchinalmente rivolge le domande. Sergej Sergeic, a sedere anche lui, si stropiccia le mani grassottelle, e di quando in quando insinua una paroletta.
– Ci ammaliamo e patiamo tante pene, – dice egli – per l’unica ragione che Dio misericordioso lo preghiamo poco e male. Proprio!
In tutte le ore di visita, Andrej Efimyc non esegue nessuna operazione: da un pezzo, ormai, ne ha perso ogni abitudine, e la vista del sangue gli provoca una sgradevole agitazione. Quando gli avviene di dover aprire la bocca a un bambino, per guardargli in gola, e il bambino urla e si difende con le sue manine, a sentirsi quel frastuono nelle orecchie gli gira la testa, e gli spuntano le lacrime agli occhi. Si affretta a precettare la medicina e fa segno con le mani che la donna si sbrighi a portarsi via il bimbo.
Ben presto, ricevendo così i malati, gli vengono a noia la timidezza e la stupidità di costoro, la vicinanza dell’ornatissimo Sergej Sergeic, i ritratti alla parete e le sue proprie domande, che ripete invariabilmente già da più di vent’anni. E finisce con l’andarsene via, dopo aver passato la visita a cinque o sei dei malati. Ai rimanenti, in assenza di lui, passa la visita l’assistente.
Riconfortandosi col pensiero che, grazie a Dio, clientela privata non ne ha più da gran tempo, e quindi non c’è nessuno che gli dia fastidi, Andrej Efimyc, giungendo a casa, immediatamente va a sedersi al tavolo di studio e si mette a leggere. Legge moltissimo, e sempre con un gran piacere. La metà dello stipendio gli va via nell’acquisto di libri, e delle sei stanze del suo appartamento tre sono piene zeppe di libri e di vecchi giornali. Gli piacciono soprattutto le opere di storia e di filosofia; quanto alla medicina, non è abbonato a nient’altro che al “Sanitario”, rivista che ogni volta comincia a leggere dalla fine. La lettura si prolunga tutti i giorni parecchie ore di fila, e non lo stanca. Non legge, egli, con quella rapidità e impetuosità con cui leggeva ai suoi tempi Ivan Dmitric, ma lentamente, penetrando a fondo il senso, e spesso soffermandosi in quei luoghi che gli piacciono di più o che gli riescono oscuri. Accanto al libro, si tiene sempre una piccola caraffa d’acquavite, quando un cocomero salato, quando una mela macera, posati direttamente sul panno del tavolo, senza piatto.
Di mezz’ora in mezz’ora, senza distogliere gli occhi dal libro, si versa un bicchierino di acquavite e lo scola; quindi senza guardare, allunga la mano al cocomero e ne morde un boccone.
Quando sono le tre, cautamente s’avvicina all’uscio di cucina, tossicchia e dice:
– Darjuska, se io pranzassi…
Terminato il pranzo, cattivo anziché no e sudiciotto, Andrej Efimyc si aggira per le stanze, con le mani conserte sul petto, e medita.
Battono le quattro, poi le cinque, e lui seguita sempre a camminare e a meditare. Di tanto in tanto cigola l’uscio di cucina e se ne affaccia, rosso e assonnato, il viso di Darjuska.
– Andrej Efimyc, non vi va, ancora, di bere la birra? – domanda la donna, piena di premura.
– No, non è ancora il momento… – risponde lui. – Aspetto un altro po’… aspetto un altro po’…
Alla sera, di solito, viene il capo dell’ufficio postale, Michail Averjanyc che, in tutta la città, è l’unica persona la cui compagnia non riesca fastidiosa ad Andrej Efimyc. Un tempo, Michail Averjanyc era un ricchissimo proprietario di terreni, e fu ufficiale di cavalleria: ma, andato in rovina, il bisogno lo costrinse a impiegarsi, già in età avanzata, nell’amministrazione delle poste. Ha costui un aspetto di baldanza e di salute, un paio di magnifici favoriti bianchi, maniere fini e voce sonora e gradevole. E’ buono e sensibile, ma impulsivo. Quando, alla posta, qualcuno degli avventori protesta, è di parere contrario o semplicemente incomincia a discutere, Michail Averjanyc diventa paonazzo, freme da capo a piedi, e grida con voce tuonante:
– Silenzio! – dimodoché la nostra posta ha acquistato ormai da un pezzo la reputazione di un ufficio in cui la vita è dura. Michail Averjanyc stima molto e vuol bene ad Andrej Efimyc per la sua cultura e per la nobiltà dell’animo, mentre agli altri abitanti della città riserva un contegno altezzoso, come se fossero suoi subalterni.
– Eccomi qua! – esclama egli, entrando da Andrej Efimyc. – Salve, mio caro! Scommettiamo che vi son venuto a noia, eh?
– Al contrario, sono felicissimo – gli risponde il dottore. – Io sono sempre felice di vedervi.
Gli amici si accomodano in studio, sul divano, e passano qualche momento in silenzio, fumando.
– Darjuska, magari potresti portarci la birra! – dice Andrej Efimyc.
La prima bottiglia, la svuotano pur sempre in silenzio: pensoso il dottore, Michail Averjanyc, invece, allegro e vivace, come un uomo che abbia da dire qualcosa di molto interessante. E’ sempre il dottore che dà inizio alla conversazione.
– Che cosa deplorevole, – dice lento e pacato, tentennando la testa e senza guardar negli occhi il suo interlocutore (è, questa, una sua abitudine, di non guardar mai negli occhi) – che cosa profondamente deplorevole, mio egregio Michail Averjanyc, che nella nostra città manchi assolutamente della gente che sappia e abbia il gusto di condurre una conversazione intelligente e interessante! Questa è per noi una privazione tremenda. Persino i nostri intellettuali non sanno elevarsi al di sopra della banalità: il livello del loro sviluppo, ve lo assicuro, non è punto superiore a quello delle classi più umili.
– Perfettamente giusto. D’accordo.
– Voi sapete benissimo, – riprende il dottore ugualmente pacato, con qualche pausa tra le parole – come a questo mondo tutto sia insignificante e privo d’interesse, eccettuate le supreme manifestazioni spirituali dell’intelletto umano. E’ l’intelligenza che segna un limite netto tra l’animale e l’uomo, rivela la divinità di quest’ultimo, e in qualche misura costituisce per lui addirittura un surrogato dell’immortalità, la quale non esiste. Da tutto questo consegue che l’intelligenza è l’unica possibile fonte di piacere. Noi, che non vediamo né udiamo intorno a noi intelligenza di sorta, siamo dunque privati di ogni piacere. E’ vero, ci restano i libri: ma questi non son davvero la stessa cosa che una viva conversazione e un reciproco scambio d’idee. Se mi permettete di ricorrere a un paragone non del tutto calzante, i libri sono le note, mentre la conversazione è il canto.
– Perfettamente giusto.
Sopravviene un intervallo di silenzio. Dalla cucina viene fuori Darjuska, e con un espressione di ottusa afflizione, puntellandosi la faccia col pugno, si sofferma presso la soglia per ascoltare anche lei.
– Eh! – sospira Michail Averjanyc. – State fresco a pretendere, dalla gente d’adesso, l’intelligenza!
E si mette a raccontare che vita si conduceva un tempo, sana, allegra, interessante, e che spirito aveva in Russia la classe degli intellettuali, e che alto concetto aveva dell’onore e dell’amicizia.
Si dava denaro in prestito senza cambiali, ed era considerata un’ignominia non stendere la mano in soccorso d’un compagno indigente.
E le campagne militari d’allora, le avventure, le baruffe: che compagni, che donne! E il Caucaso, che stupendo paese! Per dirne una, c’era la moglie di un comandante di battaglione, strana donna, che si vestiva da ufficiale, e se ne andava la sera tra i monti, sola e senza guida. Dicevano che, su per quei villaggi tartari, avesse intessuto un romanzo con uno di quei principotti…
– Vergine santa benedetta… – sospira Darjiuska.
– E come si mangiava! Come si beveva! E che liberali accaniti c’erano allora!
Andrej Efimyc ascolta e non ode: ha qualcosa per la mente, mentre va sorseggiando la birra.
– Spesso io vado sognando di persone intelligenti e di conversazioni con esse, – dice egli inaspettatamente, interrompendo Michail Averjanyc. – Mio padre mi ha dato un’ottima educazione, ma sotto l’influsso delle idee del Sessanta, mi forzò a fare il medico. Mi sembra che se allora non gli avessi obbedito, adesso mi troverei proprio al centro di un movimento intellettuale. Probabilmente, sarei professore di qualche facoltà universitaria. Beninteso, anche l’intelligenza non è mica eterna, è transitoria, ma voi sapete perché io l’abbia in considerazione. La vita è una lacrimevole trappola.
Quando un uomo pensante raggiunge la virilità, e perviene alla maturità della consapevolezza, si sente suo malgrado come chiuso in una trappola dalla quale non c’è via di scampo. E infatti: contro la propria volontà, in modo puramente accidentale, egli si trova evocato dal non-essere alla vita… Perché? Vuol conoscere, egli, il significato e il fine della propria esistenza, ed ecco che nessuno glielo dice, o gli dicono delle bambinaggini; bussa, e non gli viene aperto; lo sopraggiunge la morte, e anche questo gli accade contro la sua volontà. E allora, allo stesso modo che in carcere gli uomini, legati dalla comune sventura, si sentono meglio quando si riuniscono insieme, così anche nella vita non ti accorgi più di essere in trappola quando, fra uomini inclinati all’analisi e ai concetti generali, ci si raccoglie insieme e si trascorre il tempo nello scambio di fiere, libere idee. Da questo punto di vista l’intelligenza è un piacere insostituibile.
– Perfettamente giusto.
Senza guardar negli occhi al suo compagno di conversazione, con voce pacata e facendo qualche pausa, Andrej Efimyc continua a discorrere delle persone intelligenti e del conversare con esse, mentre Michail Averjianic lo ascolta attentamente e lo approva con quel suo:
“perfettamente giusto”.
Sicché voi non credete nell’immortalità dell’anima? – domanda d’improvviso l’ufficiale di posta.
– No, mio egregio Michail Averjanyc, non ci credo e non ho alcun elemento per credervi.
– A esser sinceri, ho anch’io i miei dubbi. Eppure c’è in me un sentimento, come se non dovessi mai morire. Ahimé (dico fra me), vecchio barbogio, ti è arrivata l’ora di morire! E allora in fondo all’anima una vocetta mi risponde: non dar retta, non morrai!…
Quando suonano le dieci, Michail Averjanyc se ne va. Nel vestibolo, infilando la pelliccia, egli dice con un sospiro:
– Però, in che fondo di pozzo ci ha gettati il destino! La cosa più amara è che quaggiù dovremo anche morire. Eh!…
CAPITOLO SETTIMO
Accompagnato alla porta l’amico, Andrej Efimyc si siede alla scrivania e si rimette a leggere. Il silenzio della sera, e poi della notte, non è rotto da nessun rumore: sembra che il tempo si fermi e resti sospeso, insieme col dottore, sul libro, e sembra che nulla esista più, all’infuori di questo libro e della lampada dal verde paralume…
A poco a poco la rozza, contadinesca faccia del dottore si irradia di un sorriso di commozione e di rapimento, al cospetto dei processi dell’intelletto umano. Oh, perché l’uomo non è immortale? pensa tra sé. A che scopo le circonvoluzioni e i centri cerebrali, a che scopo la vista, la parola, la coscienza, il genio, se son tutte cose condannate a ridursi in polvere e, da ultimo, ad agghiacciarsi insieme con la scorza terrestre, e quindi per milioni di anni, senza senso e senza scopo, continuare a girare con la terra intorno al sole? Per il bel risultato di convertirsi in ghiaccio, e quindi di girare a questo modo, non c’era nessuna necessità di trarre l’uomo fuori dal nulla, col suo elevato, quasi divino intelletto, e poi, quasi per beffa, tramutarlo in argilla.
Trasmutazione perpetua delle cose! Ma che vigliaccheria cercar conforto in questo surrogato dell’immortalità! I processi incoscienti che si svolgono nella natura sono a un livello ancora più basso della stupidità umana, giacché in quest’ultima c’è pur sempre coscienza e volontà, mentre in quelli c’è il nulla assoluto. Soltanto un vigliacco in cui sia più grande il terrore dinanzi alla morte che non la dignità, può trovar consolazione nel pensiero che il suo corpo, col passar del tempo, vivrà in una pianta, in una pietra, in un rospo…
Ravvisare la propria immortalità nella trasmutazione delle cose è altrettanto strano quanto predire un brillante avvenire a un astuccio, dopo che il prezioso violino racchiusovi dentro si è infranto e non è più buono a nulla.
Al batter del pendolo, Andrej Efimyc si rovescia indietro sullo schienale della poltrona e socchiude le palpebre, per riflettere un pochino. E così di sorpresa, sotto l’influsso dei buoni pensieri che ha letto nel libro, gli vien fatto di gettare un’occhiata sul passato della sua vita e sul presente. Il passato è disgustoso, meglio non richiamarlo alla mente. Sennonché, nel presente, non c’è nulla di diverso che nel passato. Egli sa perfettamente che nello stesso momento in cui i suoi pensieri, in una con quell’immagine della terra ghiacciata, vagano intorno al sole, qui a pochi passi dal suo appartamento, nel fabbricato dell’ospedale, c’è della gente che vien meno fra le malattie e la sporcizia: qualcuno, forse, non dorme, arrovellandosi contro gli insetti, qualcuno si contagia con la resipola, o si lamenta nella morsa di una fasciatura: forse i malati giocano a caret con le infermiere e bevono l’acquavite. Nell’annata contabile, sono state ingannate dodicimila persone; tutta l’attività dell’ospedale, né più né meno che vent’anni fa, si fonda sul ladrocinio, sulle turpitudini, sui pettegolezzi, sulle connivenze, sulla sfacciata ciarlataneria: e, né più né meno che allora, l’ospedale ne viene a risultare un’istituzione immorale e supremamente nociva alla salute della gente. Ed egli sa pure che nel reparto numero 6, là dentro alle inferriate, Nikita piaccia a tutt’andare i malati, e Moisejka va in giro ogni giorno per la città a chiedere l’elemosina.
Sa benissimo, dall’altro canto, che negli ultimi venticinque anni la medicina ha subito una trasformazione favolosa. Quando lui era studente d’università, gli pareva che alla medicina sarebbe presto toccata la sorte dell’alchimia e della metafisica: ora invece, nelle sue nottate di letture, la medicina lo toccava a fondo, e gli suscitava stupore e addirittura esaltazione. E infatti, che imprevedibile splendore, che rivoluzione! Grazie all’asepsi si compiono certe operazioni che l’insigne Pirogov riteneva impossibili persino IN SPE. Comuni medici di provincia si arrischiano a eseguire la resezione dell’articolazione del ginocchio; su cento laparatomie non si ha che un caso di morte; e il mal della pietra viene considerato una tale inezia che non se ne scrive neppure. La sifilide si guarisce radicalmente. E che dire della storia dell’ereditarietà, dell’ipnotismo, delle scoperte di Pasteur e di Koch, dell’igiene con le sue statistiche; che dire della nostra medicina russa, dipendente dalle amministrazioni provinciali? La psichiatria, con la sua attuale classificazione delle affezioni, coi suoi metodi d’indagine e di cura, è ormai, in confronto di quel che era un tempo, un vero e proprio Elbruz. Ora ai pazzi non si versa in capo l’acqua fredda, e non si fanno indossare le camicie di forza: si trattano umanamente, e anzi (a quanto riferiscono i giornali) si organizzano per loro spettacoli e balli. Insomma, Andrej Efimyc sa benissimo che, di fronte alle concezioni e alle tendenze contemporanee, un’ignominia come il reparto numero 6 è possibile unicamente a duecento miglia di distanza dalla ferrovia, in una cittadina dove il sindaco e tutti i maggiorenti son borghesucci semi-analfabeti, agli occhi dei quali il medico è uno stregone a cui bisogna credere senz’ombra di critica, anche se vi versasse in bocca dello stagno fuso; in un luogo diverso da questo, pubblico e giornali avrebbero già da un pezzo mandato in frantumi quella miserevole Bastiglia.
“Ma che importanza ha, tutto questo? – si chiede Andrej Efimyc riaprendo gli occhi. – Che ne deriva in conclusione? L’asepsi, Koch, Pasteur, tutte bellissime cose: ma la sostanza della faccenda non è mutata d’un capello. La morbilità e la mortalità sono sempre le stesse. Ai pazzi organizzano balli e spettacoli, ma in libertà, però, non li lasciano mica. E allora vuol dire che sono tutte sciocchezze, tutto fumo negli occhi, e che, a guardar bene, tra la miglior clinica viennese e il mio ospedale, differenza non ce n’è alcuna”.
Eppure un senso di cruccio, e come d’invidia, gli impedisce di mantenersi sereno. Deve trattarsi di una conseguenza della stanchezza.
La testa, pesante, gli si piega sul libro; egli si adatta le braccia sotto il viso, per stare più morbido, e pensa:
“Io partecipo a un’attività nociva e prendo lo stipendio da quegli stessi che inganno; dunque non sono onesto. Ma il fatto è che io, per me stesso, non conto nulla, non sono che una particella di un male sociale senza scampo: tutti gli impiegati del distretto sono nocivi, e intascano lo stipendio a ufo… Questo vuol dire che, della mia disonestà, colpevole non sono io, ma i tempi… Fa’ che fossi venuto al mondo duecent’anni più tardi, e sarei stato un altro!” Quando scoccano le tre, spegne la lampada e si ritira in camera da letto. Di dormire, non ha nessuna voglia.
CAPITOLO OTTAVO
Due anni fa, l’assemblea provinciale ha fatto la generosa, e ha stanziato trecento rubli annuali da servir come sussidio per l’aumento del personale sanitario nell’ospedale cittadino, fin tanto che non si aprisse l’ospedale provinciale: e, come aiuto di Andrej Efimyc, è stato chiamato dal nostro municipio il medico distrettuale Evgenij Fedoryc Chobotov. Si tratta d’un uomo ancor giovanissimo, di neppure trent’anni: un moretto d’alta statura, cogli zigomi larghi e gli occhietti piccini, da far pensare che i suoi antenati fossero d’altra razza che la slava. E’ arrivato qui in città senza un centesimo in tasca, con una valigetta leggera leggera, in compagnia d’una giovane bruttina, che lui definisce la sua cuoca. La donna ha un bambino da latte. Va in giro, il nostro Evgenij Fedoryc, in berretto con la visiera e in stivaloni alti, e d’inverno in pelliccetta di pecora.
Egli ha stretto una grande amicizia con l’assistente, Sergej Sergeic, e col cassiere, mentre gli altri funzionari son da lui definiti, chissà perché, aristocratici, e se ne tiene al largo. In casa sua non c’è che un unico libro: “Novissime ricette della clinica di Vienna per l’anno 1881”. Andando da un malato, lui porta sempre con sé il fido libretto. Al club, la sera, gioca a biliardo: le carte non gli piacciono. Ha la passione d’usare, parlando, locuzioni di questo genere: broda lunga, mentifolia con l’aceto, piantala di menare il can per l’aia, e via su questo tono.
All’ospedale, ci va due volte la settimana: fa il giro delle corsie e visita i malati d’ambulatorio. L’assoluta mancanza di misure antisettiche, e le coppette per cavare il sangue lo fanno inalberare:
ma nuove disposizioni, non ne introduce, timoroso che se ne abbia a male Andrej Efimyc. Egli considera il suo collega, Andrej Efimyc, come un vecchio briccone; sospetta che possieda larghi mezzi, e in segreto ne è invidioso. Ben volentieri prenderebbe il suo posto.
CAPITOLO NONO
Una sera di primavera, sul finire di marzo, che già in terra non c’era più neve, e nel giardino dell’ospedale cantavano gli storni, il dottore era uscito ad accompagnare fino al cancello l’ufficiale di posta suo amico. Per l’appunto in quel momento, ecco entrare nel cortile Moisejka l’ebreo, di ritorno col suo bottino. Stava senza cappello, coi piedi nudi infilati in due cenci di calosce, e fra le mani reggeva una sacchetta con la roba limosinata.
– Dammi il soldino! – si rivolse al dottore, tremando di freddo e sorridendogli.
Andrej Efimyc, che non era mai stato capace di rifiutare, gli diede una monetina da quaranta centesimi.
“Che cosa penosa! – pensò, guardando a quei piedi nudi, dai rossi, scarni metatarsi. – Vedi un po’, è bagnato fradicio”.
E, mosso da un sentimento fra la pietà e il disgusto, s’avviò verso il padiglione dietro all’ebreo, sbirciando ora la sua testa calva, ora i suoi metatarsi. All’entrar del dottore, dal mucchio di ciarpame saltò giù Nikita, e si stiracchiò.
– Salute, Nikita – disse mollemente Andrej Efimyc. – Se a quest’ebreo si desse un paio di scarpe, che ne dici? Altrimenti, si raffredderà.
– Benissimo, Eccellenza. Ne riferirò all’economo.
– Sì, fa’ il favore. Chiediglielo a nome mio. Digli che te l’ho detto io.
La porta che dall’atrio metteva nella corsia era spalancata. Ivan Dmitric, sollevandosi sul gomito dal giaciglio su cui stava sdraiato, tese allarmato l’orecchio alla voce estranea, e di colpo riconobbe il dottore. Tutto fremente d’ira, saltò a terra, e col viso congestionato e cattivo, gli occhi sbarrati, corse nel mezzo dello stanzone.
– E’ venuto il dottore! – gridò, e ruppe in una sghignazzata. – Finalmente! Signori, i miei rallegramenti: il dottore ci degna d’una visita! Rettile maledetto! – stridette, e in un trasporto di furore, come ancora non lo avevano mai visto qui dentro, pestò col piede sul pavimento. – Bisogna ammazzarlo, questo rettile! No, ammazzarlo è poco: affogatelo in un cesso!
Andrej Efimyc, a udir quelle grida, dall’atrio allungò un’occhiata in corsia, e domandò col suo tono molle:
– Ma che c’è?
– Che c’è? – gridò Ivan Dmitric, avvicinandosi a lui con un’aria minacciosa, e febbrilmente s’avvoltolava nella sua vestaglia. – Che c’è? Ladro! – sbottò con avversione, facendo con le labbra una smorfia come se volesse sputare. – Ciarlatano! Boia!
– Calmatevi, – disse Andrej Efimyc, con un sorriso colpevole. – Vi posso garantire che io non ho mai rubato nulla: quanto al resto poi, è probabile che esageriate molto. Vedo bene che siete inquieto con me.
Calmatevi, vi prego, se potete; e ditemi a mente fredda: perché siete così inquieto?
– E perché, voi, mi tenete qui?
– Perché siete malato.
– Sì, sarò malato. Ma ci sono, vero?, decine, centinaia di pazzi che girano in libertà, per la ragione che la vostra ignoranza è incapace di distinguerli dai sani. E perché mai, dunque, io e questi altri disgraziati dobbiamo stare rinchiusi qui dentro per conto di tutti, come capri espiatori? Voi, l’assistente, l’ispettore e tutta la vostra feccia ospedaliera siete, dal punto di vista morale, senza paragone più in basso che ciascuno di noi: perché dunque noi stiamo rinchiusi, e voi altri no? Dove sta la logica?
– La morale e la logica, nel nostro caso, non c’entrano. Tutto dipende dal caso. Chi han chiuso dentro, quello ci sta, e chi non ci han chiuso, se la spassa: ecco tutto! Nel fatto che io sia un dottore, e voi un malato di mente, non c’è né morale né logica: si tratta esclusivamente di una combinazione senza senso.
– Questa è una pappolata che non capisco… – mormorò sordamente Ivan Dmitric, e si sedette sul suo giaciglio.
Intanto Moisejka, che Nikita si peritava di perquisire alla presenza del dottore, veniva disponendo sul suo letto tozzi di pane, cartacce e ossicini, e ancor tutto tremante di freddo, cominciò, in fretta e cantilenando, un discorso in ebraico. S’immaginava, probabilmente, d’aver aperto bottega.
– Mandatemi in libertà – esclamò Ivan Dmitric, e la sua voce ebbe un tremito.
– Non posso.
– Ma perché, dunque? Perché?
– Perché non è in mio potere. Riflettete voi stesso: che utilità vi verrebbe, se io vi mandassi libero? Su, andate. Gli abitanti della città, o la polizia, vi fermeranno, e vi riporteranno indietro.
– Sì, sì, questo è vero… – proruppe Ivan Dmitric, e si terse la fronte. – E’ una cosa tremenda! Ma io, dunque, che devo fare? che devo fare?
La voce di Ivan Dmitric, e il suo giovane viso intelligente, con tutte quelle smorfie, erano piaciuti ad Andrej Efimyc. Gli era nata una voglia di trattare con maniere affettuose il giovane, e così tranquillizzarlo. Si sedette al suo fianco sul giaciglio, pensò un po’, e disse:
– Voi mi chiedete cosa fare. La miglior cosa, nella vostra posizione, sarebbe di fuggirvene di qui. Ma, purtroppo, non vi riuscirebbe d’alcun utile. Sareste ripreso. La società, quando si tratta di proteggersi dai criminali, dai malati psichici e dagli indesiderabili in genere, è veramente invincibile. Vi rimane soltanto un’uscita:
trovare la calma nel pensiero che la vostra permanenza qui è inevitabile.
– A nessuno ne viene in tasca niente.
– Ma una volta che le carceri e i manicomi esistono, bisogna pure che qualcuno ci stia rinchiuso dentro! Se non sarete voi, sarò io; se non sarò io, sarà un terzo qualsiasi. Abbiate pazienza: quando, in un lontano avvenire, carceri e manicomi termineranno la loro esistenza, allora non ci saranno più né inferriate alle finestre, né camicioni da ospedale. In fondo, prima o poi, quest’epoca arriverà.
Ivan Dmitric ebbe un sorriso ironico.
– Voi scherzate – esclamò, facendo palpitar le ciglia. – Signori del vostro genere, e del vostro aiutante Nikita, non hanno a spartire nulla con l’avvenire: ma potete star sicuro, illustrissimo, che sopravverranno, i tempi migliori! Non importa se io mi esprimo goffamente, ridetene pure: ma risplenderà l’aurora di una nuova vita, trionferà la verità, e allora sarà festa nel nostro quartiere! Io non durerò fino a quel giorno, creperò prima, ma al posto mio qualche pronipote ci arriverà. Mi felicito con costoro dal profondo dell’anima, e giubilo, giubilo per loro! Avanti, avanti! Che Dio vi aiuti, amici!
Ivan Dmitric, con gli occhi che gli splendevano, si levò in piedi, e protendendo le mani verso la finestra, continuò, con voce piena d’emozione:
– Di dietro a queste inferriate vi benedico! Evviva la verità! Io ne giubilo!
– E io non trovo nessuna particolare ragione di giubilare – esclamò Andrej Efimyc, al quale l’atto di Ivan Dmitric era parso teatrale e nello stesso tempo era assai piaciuto. – Carceri e manicomi non ci saranno più, e la verità (come vi siete espresso voi) trionferà, ma la sostanza delle cose non cambierà mica; le leggi della natura rimarranno sempre le stesse. Gli uomini si ammaleranno, invecchieranno e moriranno allo stesso modo che adesso. Comunque splendida sia l’aurora che illumini la vostra vita, finirete pur sempre con l’essere inchiodato in una bara e gettato in una fossa.
– E l’immortalità?
– Eh, via!
– Voi non credete, affar vostro: ma io, credo. In Dostoievskij, o in Voltaire, c’è un personaggio che dice che se Dio non ci fosse, gli uomini lo avrebbero escogitato. E io, da parte mia, sono profondamente convinto che se l’immortalità non ci fosse, presto o tardi la inventerebbe un alto intelletto umano.
– Ben detto – proruppe Andrej Efimyc, sorridendo di soddisfazione. – E’ una buona cosa che voi abbiate la fede. Con una fede di questo genere si può vivere contenti come pasque anche a stare rinchiusi dentro un muro. Voi avete seguito dei corsi di studio?
– Sì, sono stato all’università, ma non ho preso la laurea.
– Siete una persona che ragiona e che penetra bene a fondo nelle cose.
In qualsiasi ambiente vi troviate, siete in grado di trovar conforto in voi stesso. Una libera e profonda capacità di ragionare, che tenda alla comprensione della vita, e un assoluto disprezzo per le stupide vanità del mondo, ecco due beni più alti dei quali l’uomo non ne ha mai conosciuti. E voi potete averne il possesso anche se viveste dietro a una triplice inferriata. Diogene abitava in una botte, eppure era più felice di tutti i re della terra.
– Il vostro Diogene era un balordo – ribatté accigliato Ivan Dmitric.
– Che venite a parlarmi di Diogene, e di non so quale comprensione per giunta? – s’irritò d’improvviso, e saltò giù dal giaciglio. – Io amo la vita, la amo appassionatamente! Ho la mania di persecuzione, una perpetua tormentosa paura, ma mi vengono certi minuti in cui mi afferra una brama di vivere, e allora temo di perdere il lume della ragione. Desidero tremendamente la vita, tremendamente!
Agitato, fece avanti e indietro per lo stanzone, e disse, abbassando la voce:
– Quando io fantastico, mi accade di avere delle visioni. Mi si presentano delle persone, odo delle voci, della musica, e mi pare di star passeggiando per chissà che boschi, o lungo la riva del mare, e mi prende un desiderio così acuto di frastuono, di faccende… Ditemi:
ebbene, che c’è di nuovo fuori di qui? – domandò Ivan Dmitric. – Che si fa, che si fa?
– E’ della città che volete sapere, o del mondo in genere?
– Be’, prima ditemi qualcosa della città, e poi del mondo in genere.
– Che dire? In città, è un’uggia estenuante… Non c’è uno a cui dire una parola, non uno da poter ascoltare. Persone nuove, non se ne vede.
E’ arrivato, di recente, il giovane medico Chobotov.
– Quello è arrivato che io stavo ancora fuori. Cos’è, uno sguattero?
– Sì, non è un uomo colto. E’ una cosa strana, sapete… Tutto porterebbe a credere che nelle nostre città capitali, non essendovi ristagno intellettuale, anzi un continuo movimento, dovrebbero pure allignarvi delle persone in gamba: ma, chissà come, ogni volta ci spediscono di là certi esemplari da farti cascar le braccia.
Disgraziata, la nostra cittadina!
– Sì, è una cittadina disgraziata! – sospirò Ivan Dmitric, e gli venne fatto di ridere. – E del mondo in genere, che mi dite? Che si scrive, su giornali e riviste?
Nello stanzone era sceso il buio. Il dottore si levò in piedi e, così ritto, cominciò a riferire quello che si scriveva all’estero e in Russia, e quale orientamento di pensiero si stava delineando attualmente. Ivan Dmitric ascoltava attento, e interveniva a sua volta con qualche domanda: ma d’improvviso, come al sovvenirgli di qualcosa di orribile, si afferrò la testa fra le mani e si sdraiò sul giaciglio, voltato di schiena al dottore.
– Che cosa avete? – gli domandò Andrej Efimyc. – Da me, voi non udrete più neanche una parola! – proruppe sgarbatamente Ivan Dmitric. – Lasciatemi solo!
– Ma perché?
– Lasciatemi, vi dico! O che diavolo!
– Andrej Efimyc si strinse nelle spalle, diede un sospiro e uscì.
Passando per l’atrio, gli venne di dire:
– Se qui si desse una ripulita, Nikita… C’è una puzza che ammorba!
– Benissimo, Eccellenza.
“Che simpatico giovanotto! – pensava Andrej Efimyc, avviandosi al suo appartamento. – da quando sono venuto in questi posti è, se non sbaglio, la prima persona con cui si possono scambiare due parole. E’ capace di ragionare, e s’interessa appunto di ciò che è fondamentale”.
Mentre leggeva, e poi nel coricarsi per dormire, ininterrottamente il pensiero gli andava a Ivan Dmitric: e destandosi al mattino, subito gli tornò in mente la conoscenza che aveva fatta iersera con quell’intelligente, interessante giovane, e decise tra sé di riandare a trovarlo non appena gli si presentasse l’occasione.
CAPITOLO DECIMO
Ivan Dmitric stava là sdraiato nella stessa posa del giorno prima, con la testa serrata fra le mani e le gambe contratte. Il viso gli rimaneva invisibile.
– Buon giorno, amico mio – esclamò Andrej Efimyc. – Non dormite, no?
– In primo luogo, io non sono amico vostro – ribatté Ivan Dmitric, con la bocca nel cuscino. – E in secondo luogo poi, perdete tempo a tramenarmi intorno: non riuscirete a cavarmi fuori una parola.
– Strano… – mormorò Andrej Efimyc turbato. – Ieri, stavamo conversando tanto placidamente, e tutt’a un tratto, non so perché, vi siete impennato e avete troncato ogni cosa… Si vede che io ho avuto qualche espressione poco felice, o chissà, ho manifestato qualche idea in disaccordo con le vostre convinzioni…
– Sì, aspettate che lo confido a voi! – disse Ivan Dmitric, sollevandosi un po’ sul giaciglio e fissando il dottore con aria beffarda e inquieta (aveva gli occhi arrossati). – Potete andare a far la spia e il provocatore in qualche altro posto, ma qui, per voi, non c’è niente da fare. Fin da ieri sera lo avevo capito perché eravate venuto qui!
– Strana fantasia! – ridacchiò il dottore. – Sicché, vi sta in mente che io sia uno spione?
– Proprio, mi sta in mente così… Infatti, o che siate uno spione, o un dottore mandato a scrutarmi nell’intimo, è la stessa cosa.
– Oh, siete proprio, scusate… un gran baggiano!
Si era seduto, il dottore, su uno sgabello lì alla sponda del letto, e in aria di rimprovero scrollava la testa.
– Ma ammettiamo pure che voi abbiate ragione – esclamò. – Ammettiamo che io, a tradimento, venga a sorprendervi in atto di dir qualche frase, da poter denunciarvi alla polizia. Vi arresterebbero, e poi vi farebbero il processo. Ma forse forse in tribunale o in carcere, per voi andrebbe peggio di qui? E se vi mandassero in una colonia penale, o foss’anche ai lavori forzati, sarebbe qualcosa di peggio che star rinchiuso in questo padiglione? Suppongo che peggio non sarebbe… Che cosa avete dunque da temere?
Queste parole, evidentemente, ebbero effetto su Ivan Dmitric. Egli si mise tranquillo a sedere.
Erano le cinque della sera, ora in cui abitualmente Andrej Efimyc passeggiava su e giù per le sue stanze, e Darjuska veniva a domandargli se non era tempo che bevesse la birra. Fuori, il tempo era calmo e sereno.
– Io, dopo desinato, sono uscito a fare due passi, e così sono entrato qui, come vedete – disse il dottore. – E’ proprio arrivata la primavera!
– Che mese è adesso? E’ marzo? – domandò Ivan Dmitric.
– Sì, è la fine di marzo.
– C’è molto fango in giro?
– No, non troppo. Nel giardino i viottoli sono già rassodati.
– Di questi tempi sarebbe bello fare una scarrozzata in qualche posto, fuori di città – esclamò Ivan Dmitric, stropicciandosi gli occhi arrossati, come per vincere un’assonnatezza. – Poi ritornarsene a casa, al tepore e ai comodi del proprio scrittoio, e… e farsi curare del mal di capo da un bravo dottore… Oh quanto tempo è che io non conduco una vita umana! Qui è nauseante, sapete? E’ insoffribilmente nauseante!
Dopo l’eccitamento di iersera, egli era spossato e abbattuto, e parlava malvolentieri. Le dita gli tremavano, e dal viso s’indovinava che aveva un gran dolor di testa.
– Fra un tiepido, comodo scrittoio e questo camerino, non c’è alcuna differenza – esclamò Andrej Efimyc. – La quiete e la contentezza, per l’uomo, non sono fuori di lui, ma in lui stesso.
– Sarebbe a dire?
– L’uomo volgare aspetta il bene o il male dall’esterno, cioè dalla scarrozzata e dallo scrittoio, mentre l’uomo pensante non lo aspetta che da se stesso.
– Via, andate a predicare questa filosofia là in Grecia, dove l’aria è così tiepida e odora d’arancio: qui è troppo in contrasto con il nostro clima! Con chi ho avuto occasione di parlare di Diogene? Con voi, mi pare?
– Sì, ieri sera con me.
– Diogene non aveva bisogno di scrittoio, né di tiepido alloggio:
laggiù si sta caldi anche senza. Ti corichi dentro una botte e ti cibi d’arance e d’olive. Ma portalo un po’ a vivere in Russia, e vedrai che non solo a dicembre, ma anche a maggio chiederebbe una camera. Non dubitare che s’ingranchirebbe dal freddo.
– No, il freddo, come ogni altra sensazione dolorosa, si può non avvertire. Marco Aurelio diceva: “Il dolore non è che una viva rappresentazione del dolore: compi uno sforzo di volontà, in modo da mutare questa rappresentazione, rimuovila da te, cessa di lamentarti, e il dolore svanirà”. E’ una cosa giustissima. Il sapiente, o più semplicemente l’uomo pensante, che penetra a fondo nelle cose, si distingue appunto per il fatto che disprezza la sofferenza: egli è sempre contento, e di nulla stupisce.
– Allora io sarei un idiota, dato che soffro, sono scontento e rimango stupito delle bassezze umane.
– Voi sbagliate, a fare così. Se vi sollevaste più spesso alla meditazione, comprendereste allora quanto siano trascurabili tutte quelle esteriorità che vi mettono in tanta agitazione. L’essenziale è di tendere alla comprensione della vita: raggiunta questa, si ottiene il vero bene.
– Comprensione della vita… – aggrottò il viso Ivan Dmitric. – Esteriorità, interiorità… Scusatemi, son cose che non intendo. Io so soltanto, – esclamò, alzandosi e fissando irosamente il dottore – so soltanto che Dio mi ha creato di sangue caldo e di nervi, già! E poi, un tessuto organico, se è vitale, deve reagire a tutte le irritazioni.
E io reagisco! Al dolore rispondo con le grida e con le lacrime, alle bassezze con lo sdegno, alle turpitudini con la nausea. A parer mio, appunto in questo consiste la vita. Quanto più in basso sta un organismo, tanto meno è sensibile, e tanto più debole è la risposta che dà agli stimoli esterni: e quanto più sta in alto, tanto più è ricettivo, e con tanta più energia reagisce alla realtà. Come ignorare cose simili? Siete un dottore, e non sapete certe piccolezze! Per poter disprezzare il dolore, essere sempre contenti e non meravigliarsi di nulla, bisogna ridursi, ecco, in quello stato lì – e Ivan Dmitric indicò il massiccio, obeso contadino. – Oppure indurirsi talmente alle sofferenze, da perdere ogni sensibilità per esse; cioè, in altre parole, cessare di vivere. Voi mi scuserete, giacché io non sono né un sapiente né un filosofo, – soggiunse Ivan Dmitric irritato – e si tratta di cose di cui non m’intendo affatto. Non sono in grado di ragionarne.
– Al contrario, ne ragionate benissimo.
– Gli stoici, che voi andate parodiando, sono stati uomini superiori, ma sono passati ormai duemila anni da quando la loro dottrina si è cristallizzata, e da allora non ha avanzato d’un filo, né avanzerà mai, per il fatto che non è pratica, non è vitale. Essa ha avuto seguito soltanto presso una minoranza, intenta a passar la vita nello studio e nella degustazione delle più varie dottrine: ma la maggioranza non l’ha compresa. Una dottrina, la quale predica l’indifferenza alla ricchezza e agli agi della vita, il dispregio delle sofferenze e della morte, riesce assolutamente incomprensibile all’enorme maggioranza degli uomini, giacché quest’ultimi non hanno mai conosciuto, nella vita, né ricchezza né agi; e d’altro canto, disprezzar le sofferenze, equivarrebbe per essi a disprezzar la vita stessa, giacché tutta l’esistenza umana consiste in sensazioni di fame, di freddo, di offesa, di privazione, e di amletico terrore davanti alla morte. A queste sensazioni si riduce per intero la vita:
è lecito sentirne la gravità, prenderla in odio, ma non già disprezzarla. E perciò, lo ripeto, la dottrina degli stoici non potrà mai avere avvenire, mentre dal principio dei tempi a tutt’oggi progrediscono, come vedete, la lotta, la suscettibilità al dolore, la capacità di rispondere alle irritazioni esterne…
Di colpo Ivan Dmitric perse il filo delle idee, si fermò, e contrariato si terse la fronte.
– Volevo dire qualcosa d’importante, ma mi è sfuggito di mente – esclamò. – Di che stavo parlando? Ah, sì! Ecco, si tratta di questo:
c’è stato, fra gli stoici, qualcuno che si è venduto in schiavitù pur di riscattare il suo prossimo. Ebbene, vedete dunque: vuol dire che anche lo stoico reagiva alle irritazioni, giacché per risolversi a un atto talmente magnanimo, come annientar se stesso per amor del prossimo, è necessaria un’anima capace di indignarsi, di soffrire all’unisono cogli altri. Io ho dimenticato, in questa prigione, tutto ciò che ho studiato, altrimenti mi sovverrebbe anche qualche altra cosa… E se prendiamo Cristo? Cristo rispondeva alla realtà piangendo, sorridendo, affliggendosi, adirandosi, angosciandosi perfino: non fu già con un sorriso che Egli andò incontro alle sofferenze, né disprezzò la morte, ma pregò nel giardino di Getsemani che passasse via da Lui questo calice.
Ivan Dmitric rise e si sedette.
– Ammettiamo pure che la tranquillità e la contentezza dell’uomo siano non già al di fuori di lui, ma in lui stesso – riprese. – Ammettiamo che sia indispensabile disprezzare le sofferenze e non meravigliarsi di nulla. Ma voi, personalmente, che fondamento avete per predicare così? Siete un sapiente, voi? Siete un filosofo?
– No, io non sono un filosofo, ma si tratta d’un insegnamento che chiunque può sostenere, giacché soddisfa la ragione.
– No, io voglio sapere per quale motivo, nelle faccende della comprensione, del disprezzo delle sofferenze, eccetera eccetera, voi vi ritenete un competente. Perché avete forse sofferto qualche volta?
Avete un concetto, voi, di ciò che sia soffrire? Permettete: quando eravate piccolo, vi battevano?
– No, i miei genitori avevano un’avversione per le punizioni corporali.
– E invece mio padre mi ha battuto crudelmente. Era, mio padre, uno di quegli aspri impiegati emorroidari, con un lungo naso e il collo giallo. Ma parliamo piuttosto di voi. In tutta la vostra vita, nessuno vi ha mai sfiorato con un dito, nessuno vi ha mai spaventato, mai bastonato: e di salute ne avete quanto un bue. Vi siete fatto grande sotto l’ala del babbo, avete compiuto gli studi a sue spese, e poi tutt’a un tratto avete agguantato una bella sinecura. Sono più di vent’anni che vivete gratis in un appartamento ben riscaldato, ben illuminato, con tanto di servitù, godendo per giunta del diritto di lavorare come e quanto vi piace, o magari di non far nulla. Voi, di natura vostra, siete un uomo infingardo, flaccido, e quindi avete fatto di tutto per sistemare la vostra vita in modo che nessuno vi infastidisse o vi costringesse a spostarvi di pezzo. Il da fare lo avete scaricato sull’assistente e sull’altro canagliume, mentre voi ve ne siete stato al calduccio, in santa pace, raggranellando quattrini, leggiucchiando libretti, godendovela a speculare su ogni sorta di elevate fandonie, nonché – qui Ivan Dmitric diede un’occhiata al naso rosso del dottore – a scolare bicchierini. A farla breve, voi la vita non l’avete vista, non la conoscete a fondo, e con la realtà delle cose non avete che una conoscenza teorica. E quanto al vostro disprezzo delle sofferenze e al vostro non stupirsi di nulla, hanno un movente semplicissimo: la vanità delle vanità, l’esteriorità e l’interiorità, il disprezzo della vita, delle sofferenze e della morte, la comprensione, il bene verace, costituiscono, tutti insieme, una filosofia che pare fatta su misura per il poltrone russo. Voi vedete, per esempio, un contadino che picchia la moglie. A che scopo intromettersi? Lascia che la picchi, già tutt’e due moriranno lo stesso prima o poi; e per giunta, chi picchia, offende con le sue percosse non già colui che picchia, ma se stesso. Abusar di liquori è stupido e sconveniente, ma se berrai, morirai, e se non berrai, morirai ugualmente. Viene a cercarti una popolana, le dolgono i denti… Ebbene? Il dolore non è che una rappresentazione del dolore, e poi, senza malattie non si campa a questo mondo, e tutti finiremo col morire: si tolga dunque d’innanzi questa popolana, e non m’impedisca di speculare e di succhiare acquavite. Un giovane chiede consiglio, cosa fare, come vivere; prima di dargli una risposta, un altro ci penserebbe ben bene; qui invece la risposta è già pronta: tendi alla comprensione, ovvero sia al bene verace. Ma che cos’è, questo fantastico BENE VERACE? La risposta qui manca, beninteso! Noi altri siamo tenuti qua in gabbia, ci fanno imputridire, ci torturano, ma anche queste sono cose eccellenti e razionalmente giustificabili, con ciò sia cosa che tra questa corsia e un tiepido, accogliente scrittoio, non c’è alcuna differenza. Oh la comoda filosofia: da fare, non c’è nulla, la coscienza è netta, e hai la sensazione di essere un sapiente… Ah no, illustre signore: non è filosofia questa, non è meditazione, né larghezza di vedute; bensì è pigrizia, è fachirismo, è sonnolenta ebetaggine… Sì! – tornò a incollerirsi Ivan Dmitric. – Le sofferenze, voi le disprezzate, ma fate che vi si schiacci un dito nella porta, e vedrete se non vi metterete a urlare a squarciagola!
– Chissà, potrebbe anche darsi che non urlerei – esclamò Andrej Efimyc sorridendo con dolcezza.
– Sì sì, altrocché! E se poi vi stecchisse una paralisi, oppure, supponiamo, un imbecille o un impudente qualunque, approfittando della sua posizione e del suo grado, vi oltraggiasse pubblicamente, e voi sapeste come nessuno lo punirebbe di questo, eh, allora sì che comprendereste cosa vuol dire rimandare gli altri alla comprensione e al bene verace!
– Originale davvero! – esclamò Andrej Efimyc, ridendo di piacere e stropicciandosi le mani. – Io rimango gradevolmente colpito dalla disposizione che avete al colpo d’occhio sintetico, mentre poi il mio profilo, come lo avete schizzato poco fa, è stato semplicemente sfolgorante. Ve lo confesso: conversare con voi mi procura un enorme piacere. Orbene: fin qui vi ho ascoltato io; ora anche voi abbiate la benevolenza di ascoltare me…
CAPITOLO UNDICESIMO
La conversazione si prolungò ancora per un’oretta e, a quanto sembra, produsse su Andrej Efimyc una profonda impressione. Da quel giorno, cominciò a venire nel padiglione quotidianamente. Ci veniva al mattino e dopo desinare, e spesso il calar della sera lo trovava a colloquio con Ivan Dmitric. Sulle prime, Ivan Dmitric s’impennava a vederlo, sospettava che avesse qualche subdolo disegno, e gli esprimeva apertamente il suo scontento: poi ci fece l’abitudine, e la sua sgarberia fece posto a un atteggiamento d’ironica condiscendenza.
Ben presto, per l’ospedale si diffuse la voce che il dottor Andrej Efimyc si era messo a frequentare il reparto numero 6. Nessuno – né l’assistente, né Nikita, né le infermiere – potevano capacitarsi perché mai egli andasse in quel luogo, perché mai si trattenesse là dentro per ore e ore, di che cosa potesse discorrere, e come mai non prescrivesse ricette di sorta. Il suo modo d’agire apparve strano.
Spesso Michail Averjanyc non lo trovava più in casa (ciò che finora non era mai accaduto), e Darjuska rimaneva grandemente turbata a vedere che il dottore non beveva più la sua birra all’ora stabilita, e a volte ritardava addirittura a desinare.
Un giorno, già sul finire di giugno, il dottor Chobotov si recò, per non so qual affare, all’appartamento di Andrej Efimyc: non avendolo trovato in casa, andò a cercarlo per il recinto dell’ospedale: qui gli dissero che il vecchio dottore si era diretto al reparto dei malati di mente. Entrato nel padiglione, e soffermatosi nell’atrio, Chobotov poté ascoltare il seguente dialogo:
– Non sarà mai che noi due legheremo insieme, e convertirmi alla vostra fede non vi riuscirà – diceva Ivan Dmitric in tono irritato. – Con la realtà, voi non avete mai fatto conoscenza, e non avete mai sofferto: come una mignatta, non avete fatto che ingrassarvi sulle sofferenze altrui; io, invece, ho sofferto ininterrottamente da quando sono nato a oggi. E’ per questo che lo dico apertamente: mi ritengo superiore a voi, e più competente da tutti i punti di vista. Non sta a voi, di farmi il maestro.
– Io non ho la più lontana pretesa di convertirvi alla mia fede – ribatteva Andrej Efimyc, pacato e dolente che non volessero intenderlo. – E non sta qui il nocciolo della questione, amico mio.
L’essenziale non sta nel fatto che voi abbiate sofferto e io no.
Sofferenze e gioie sono transitorie: lasciamole da parte, che vadano con Dio. Ma l’essenziale sta in questo, che io e voi ragioniamo, e scorgiamo l’uno nell’altro un essere capace di ragionare e di giudicare: e questo ci rende solidali, comunque possano differire le nostre opinioni. Oh se sapeste, amico mio, come mi sono venute alla gola la irragionevolezza, la mancanza d’ogni talento, l’ottusità, e che gioia provo ogni volta che discuto con voi! Siete un uomo intelligente, voi, e io ne traggo un vero piacere.
Chobotov, allora, schiuse di due dita la porta e allungò un’occhiata in corsia. Ivan Dmitric con la sua papalina, e il dottor Efimyc stavano seduti uno a fianco dell’altro sul letto. Il pazzo contraeva la faccia, sussultava, e con gesti febbrili s’imbacuccava più stretto nel camicione, mentre il dottore sedeva là immobile, con la testa china, e aveva sul viso un’espressione bellissima, sconsolata e mesta.
Chobotov si strinse nelle spalle, fece un risolino, e scambiò un’occhiata con Nikita. Nikita, a sua volta, si strinse nelle spalle.
Il giorno dopo, Chobotov tornò al padiglione in compagnia dell’assistente. Tutt’e due si fermarono nell’atrio, e origliarono.
Al nonno, a quanto pare, è proprio girato il boccino! – esclamò Chobotov uscendo dal padiglione.
Signore, abbi pietà di noi peccatori! – rispose, con un sospirone, il pomposo Sergej Sergeic, ben attento a scansare le pozzanghere, che non avesse a inzaccherarsi le scarpe, pulite specchianti. – Vi confesso, egregio Evgenij Fedoryc, che già da un pezzo me l’aspettavo!
CAPITOLO DODICESIMO
Da quel momento, Efimyc cominciò a notare intorno a sé una certa aria di mistero. Uomini di fatica, infermiere e malati, quando s’imbattevano in lui, gli lanciavano occhiate interrogative e poi bisbigliavano tra loro. La piccola Masa, la figliola dell’ispettore, con la quale gli era caro soffermarsi nel giardino dell’ospedale, adesso, quando lui sorridendo le si avvicinava, in atto di carezzarle la testolina, chissà perché scappava lontano da lui. L’ufficiale di posta, Michail Averjianyc, quando ascoltava i suoi ragionamenti, non diceva più: “Perfettamente giusto”, ma, con un inspiegabile imbarazzo, borbottava: “sì, sì, sì…” e intanto lo fissava pensieroso e afflitto; e cominciò, chissà perché, a consigliare al suo amico che smettesse l’acquavite e la birra anche se, da persona delicata com’era, non gliene parlava direttamente, ma per allusioni, ora raccontando di un certo comandante di battaglione, uomo eccellente, ora di un cappellano militare, bravissimo ragazzo, che si erano dati al bere e si erano ammalati, ma poi, sospeso di bere, erano tornati in perfetta salute. Due o tre volte venne da Andrej Efimyc, in casa, il collega Chobotov: e anche lui gli diede il consiglio di smettere con le bevande alcoliche e, senza alcun visibile motivo, gli raccomandò di prendere del bromuro.
In agosto, Andrej Efimyc ricevette da parte del sindaco una lettera, dove lo si invitava a presentarsi per motivi assai importanti.
Recatosi il giorno prefisso in municipio, Andrej Efimyc vi trovò il comandante della guarnigione, l’ispettore governativo delle scuole del distretto, i membri del consiglio, Chobotov e, oltre costoro, un grassoccio e biondo signore, che gli fu presentato come dottore.
Questo dottore, dall’ostico cognome polacco, abitava a trenta miglia dalla città, presso un allevamento di cavalli, e oggi si trovava qui di passaggio.
– Abbiamo qui una piccola proposta che è di vostra competenza – si rivolse ad Andrej Efimyc uno dei consiglieri, dopo che tutti si furono salutati ed ebbero preso posto alla tavola. – C’è qui Evgenij Fedoryc il quale dice che la farmacia sta stretta nel fabbricato centrale, e bisognerebbe trasferirla in uno dei padiglioni. Non ci sarebbe nulla in contrario, certamente, e si potrebbe trasferirla benissimo, ma la questione principale è che il padiglione, in tal caso, avrebbe bisogno d’esser restaurato.
– Sì, dei restauri non se ne potrebbe fare a meno – rispose Andrej Efimyc, dopo un momento di riflessione. – Se, per esempio, il padiglione d’angolo si volesse ridurre a farmacia, questo importerebbe a parer mio un MINIMUM di cinquecento rubli di spesa. Denaro gettato al vento.
Seguì una pausa di silenzio.
– Io ho già avuto l’onore di dichiarare dieci anni or sono, – riprese Andrej Efimyc con voce pacata – che quest’ospedale, com’è organizzato attualmente, rappresenta per la città un lusso superiore ai suoi mezzi. Fu fabbricato verso l’ottocentocinquanta, ma sapete che allora i mezzi erano ben altri. La città affronta spese eccessive per fabbriche inutili e per incarichi superflui. Io penso che, col denaro disponibile, si potrebbe, con criteri diversi, mantenere due ospedali modello.
– E dunque voi adottateli, questi criteri diversi! – esclamò vivacemente un consigliere.
– Io ho avuto già l’onore di fare la mia proposta: affidate l’assistenza sanitaria alla giurisdizione della provincia.
– Sì, affidate i denari alla provincia, che penserà essa a rubarli! – scoppiò a ridere il dottore biondo.
– Questo rientrerebbe nelle sue consuetudini – confermò un consigliere, e anche lui scoppiò a ridere.
Andrej Efimyc alzò un’occhiata stanca e opaca verso il biondo dottore, e disse:
– Bisogna essere probi.
Di nuovo ci fu un silenzio. Fu servito il tè. Il comandante della guarnigione, che per qualche motivo era tutto emozionato, di là dalla tavola allungò la mano fino a toccar quella di Andrej Efimyc, e disse:
– Voi ci avete completamente dimenticati, dottore! D’altronde, voi siete un monaco: a carte non giocate, le donne non vi piacciono. Per forza vi deve annoiare, la nostra compagnia.
Allora tutti si misero a dire che noia era per una persona non volgare vivere in questa cittadina. Niente teatro, niente musica; e nell’ultima serata da ballo, svoltasi al club, le dame erano circa venti, e i cavalieri due soli. La gioventù non danza: non fa che affollarsi al buffet o giocare a carte. Dal canto suo Andrej Efimyc, lentamente, con voce pacata, senza guardare in faccia nessuno, cominciò a dire quanto fosse deplorevole, profondamente deplorevole, che gli abitanti della città sprecassero la loro energia vitale, il loro cuore e il loro intelletto in partite di carte e in pettegolezzi, e non sapessero né volessero passare il tempo in conversazioni interessanti e in letture, rifiutando di approfittare dei piaceri che offre l’intelligenza. L’intelligenza sola è interessante e degna di rilievo; tutto il rimanente è gretto e vile. Chobotov, intanto, veniva ascoltando tutt’orecchi il suo collega, e di punto in bianco gli chiese:
– Andrej Efimyc, quanti ne abbiamo oggi?
E avuta la risposta, lui e quel dottore biondo, in tono di esaminatori che si accorgano della propria inesperienza, si misero a chiedere ad Andrej Efimyc che giorno era della settimana, quanti giorni vi sono in un anno, e se corrispondeva a verità che nel reparto numero 6 vivesse un insigne profeta.
In risposta a quest’ultima domanda, Andrej Efimyc arrossì e disse:
– Sì, si tratta di un malato, ma è un giovane davvero interessante.
Dopo di che, nessun’altra domanda gli fu rivolta.
Mentre, nel vestibolo, egli infilava il cappotto, il comandante della guarnigione gli posò la mano sulla spalla, ed esclamò con un sospiro:
– E’ giunta l’ora, per noi altri vecchi, di andarcene a riposare!
E quando fu uscito dal municipio, Andrej Efimyc si rese conto che quella era una commissione incaricata di controllare le sue facoltà mentali. Gli sovvennero le domande che gli avevano rivolto, il sangue gli salì in faccia, e per la prima volta in vita sua, in quel momento, sentì un’amara pietà della medicina.
“Ah Dio mio – pensò, rappresentandosi alla mente il modo in cui quei medici lo avevano esaminato ora. – Eppure così di recente costoro hanno seguito i corsi di psichiatria, hanno sostenuto l’esame: come mai, dunque, tanta crassa ignoranza? Essi non hanno il più vago concetto della psichiatria!” E insieme, per la prima volta in vita sua, egli si sentì ferito ed esacerbato.
Quel giorno stesso, verso sera, venne a trovarlo Michail Averjanyc.
Senza attardarsi in convenevoli, l’ufficiale di posta gli si mise accanto, lo pigliò per tutt’e due le mani, e disse con voce agitata:
– Mio carissimo, amico mio, datemi una prova che voi credete nella sincerità dei miei sentimenti e mi considerate vostro amico… Amico mio! – e, impedendo ad Andrej Efimyc di parlare, continuò, sconvolgendosi: – Io vi ho caro per la vostra finezza e per la vostra nobiltà d’animo. Datemi retta, mio carissimo! A norma di scienza, i dottori si trovano obbligati a nascondervi la verità: ma io, da uomo d’armi, dico pane al pane e vino al vino: voi siete malato!
Perdonatemi, caro, ma questa è la verità, ed è una cosa che già da un pezzo hanno notato tutti quelli che vi stanno attorno. Giusto un momento fa, il dottor Evgenij Fedoryc mi diceva che, nell’interesse della vostra salute, voi dovete assolutamente riposarvi e distrarvi.
Perfettamente giusto! Occasione magnifica! A giorni, io prendo la mia licenza e me ne vado lontano a respirare un’altra aria. Datemi la dimostrazione che mi siete amico: partiamo insieme! Mettiamoci in viaggio, a marcio dispetto della vecchiaia!
– Io mi sento in perfetta salute – ribatté Andrej Efimyc, dopo aver riflettuto un momento. – Mettermi in viaggio non mi è possibile.
Permettetemi di dimostrarvi in qualche altro modo la mia amicizia.
Andar chissà dove, senza uno scopo, senza libri, senza Darjuska, sconvolgere a fondo il suo giro di vita stabilito da più di vent’anni, fu un’idea che in un primo momento gli parve stravagante e fantastica.
Ma gli sovvenne il colloquio che aveva avuto in municipio, gli sovvenne quel tetro stato d’animo in cui era tornato dal municipio verso casa, e l’idea di allontanarsi per un po’ di tempo da questa cittadina, dove gli imbecilli lo credevano pazzo, finì col sorridergli.
– Ma voi, precisamente, dove avreste intenzione di andare? – domandò.
– A Mosca, a Pietroburgo, a Varsavia… In Varsavia io ho vissuto i cinque anni più felici della mia vita. Ah che città stupefacente! In viaggio, in viaggio, amico mio!
CAPITOLO TREDICESIMO
Di lì a una settimana, fu proposto ad Andrej Efimyc che si riposasse, vale a dire che andasse in pensione: cosa che lo lasciò indifferente; e non era passata un’altra settimana, che lui e Michail Averjanyc montavano nella carrozza postale e partivano per la più prossima stazione ferroviaria. Le giornate erano rigide, limpide; azzurro il cielo e diafana l’atmosfera. Le duecento miglia fino alla ferrovia, le percorsero in due giornate, fermandosi due volte a pernottare. Quando, nelle stazioncine di posta, portavano loro per il tè dei bicchieri mal lavati, o andavano per le lunghe riattaccando i cavalli, Michail Averjanyc diventava rosso come un gallo, fremeva da capo a piedi e gridava: “Silenzio! Poche chiacchiere!”. E rimontando poi nella grossa carrozza, si metteva a raccontare senza un minuto di tregua dei suoi viaggi giù al Caucaso e per il Regno di Polonia. Quante avventure capitavano allora, che razza d’incontri! Egli parlava con voce sonora, e parlando faceva certi occhi stupiti, da suggerire il pensiero che mentisse. Per sovraccarico, nel raccontare, andava fiatando ad Andrej Efimyc proprio sul viso, e gli scoppiava a ridere dentro all’orecchio.
Tutte cose che riuscivano fastidiose al dottore, e gli impedivano di pensare e di concentrarsi.
In ferrovia, per economizzare viaggiarono in terza classe, in un vagone dov’era proibito fumare. Il pubblico, per una buona metà era costituito da persone pulite. Michail Averjanyc in quattro e quattr’otto fece conoscenza con tutti e, passando da un sedile all’altro, con la sua voce sonora ripeteva che non metteva conto viaggiare su queste stomachevoli ferrovie. Una caterva di imbroglioni!
Ben altra cosa viaggiare in sella a un buon cavallo: in capo a una giornata, ti sei sbarazzato di cento chilometri, e ti senti ben in salute e fresco come una rosa. E i cattivi raccolti, qui da noi, dipendono dal fatto che hanno prosciugato le paludi di Pinsk. Oh sì sì, tutta una baraonda spaventosa! Egli si accalorava, alzava la voce, e non lasciava parlar nessuno. Questo perpetuo ciarlare, intramezzato di sonore risate e di gesti espressivi, opprimeva Andrej Efimyc.
“Qual è il pazzo, di noi due? – diceva tra sé, contrariato. – Io, che cerco di non disturbare in alcun modo i passeggeri, o questo egoista che crede di esser qui dentro il più intelligente e il più interessante di tutti, e così non lascia in pace nessuno?” A Mosca, Michail Averjanyc mise la giubba militare senza spalline e i pantaloni con le strisce rosse. Per strada andava in giro col berretto da ufficiale e la mantella, e i soldati gli presentavano le armi.
Andrej Efimyc aveva ora l’impressione che questi fosse un uomo il quale, di tutto ciò che aveva avuto di signorile un tempo, avesse gettato via tutto il buono, e avesse tenuto in serbo soltanto il cattivo. Ci godeva a esser servito, anche quando non ce n’era alcun bisogno. I fiammiferi gli stavano davanti sul tavolo e lui li vedeva, ma gridava al cameriere che gli portasse i fiammiferi; sotto gli occhi delle cameriere non si faceva scrupolo di girare in biancheria intima; ai servitori senza eccezione, anche in età rispettabile, dava del tu, e quando andava in collera, li gratificava di mammalucco e d’imbecille. E queste (pareva ad Andrej Efimyc) erano cose cose che tenevano del signorile, ma facevan vergogna.
Prima d’ogni altra cosa, Michail Averjanyc condusse il suo amico a visitar l’Immagine dell’Iverskaja. Pregò con ardore, con accompagnamento di inchini fino a terra e di lacrime, e quando ebbe terminato, diede un profondo sospiro e disse:
– Anche se non si ha fede, si sente pur sempre una serenità maggiore, dopo che si è pregato. Adoratela e baciatela, amico mio.
Andrej Efimyc si confuse tutto e si accostò a baciare l’immagine, mentre Michail Averjanyc sporgeva in fuori le labbra e, tentennando la testa, pregava in un bisbiglio, cogli occhi che tornavano a riempirglisi di lucciconi. Dopo di che, andarono al Cremlino, dove osservarono lo zar-cannone e lo zar-campanone, e anzi li sfiorarono pure col dito, e si estasiarono alla veduta verso Zamoskvorec’e, e visitarono il tempio del salvatore e il museo Rumjancev.
A desinare andarono da Testov. Michail Averjanyc stette un pezzo a guardare il menù, allisciandosi i favoriti, e poi disse in un tono di buongustaio, avvezzo a sentirsi nei ristoranti come a casa sua:
– Vediamo un po’, oggi, cosa ci darete da mangiare, angelo bello!
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Il dottore girava, guardava, mangiava, beveva, ma il sentimento che aveva dentro era uno solo: un fastidio di Michail Averjanyc. Avrebbe voluto esser lasciato un po’ in pace dall’amico, appartarsi da lui, nascondersi, e invece l’amico credeva suo dovere non farselo scostare neppure di un passo, e procurargli la maggior quantità possibile di distrazioni. Quando non c’era niente da guardare, si impegnava a distrarlo con le chiacchiere. Andrej Efimyc pazientò due giorni, ma il terzo, dichiarò al suo amico che si sentiva male, e voleva restare tutta la giornata a casa. L’amico rispose che in tal caso anche lui sarebbe rimasto. Effettivamente, un po’ di riposo ci voleva: se no, di questo passo, la gamba non avrebbe più retto. Andrej Efimyc si allungò sul divano col viso voltato alla spalliera e, a denti stretti, stava a sentire il suo amico che calorosamente gli garantiva che la Francia, più presto o più tardi, avrebbe senza fallo sgominato la Germania, e che a Mosca c’è una quantità enorme d’imbroglioni, e che dall’aspetto di un cavallo è impossibile giudicare delle sue virtù. Al dottore cominciarono a rombare le orecchie e a battere il cuore; ma pregar l’amico che se ne andasse, o che tacesse, era una cosa che la delicatezza gli impediva. Per buona sorte, Michail Averjanyc si annoiò a star rinchiuso in quella stanza d’albergo, e dopo mangiato uscì a far due passi.
Rimasto solo, Andrej Efimyc si abbandonò tutto a una sensazione di riposo. Com’è piacevole giacersene immobile sopra un divano, con la coscienza di esser solo dentro la stanza! Una vera felicità è impossibile senza la solitudine. L’angelo caduto tradì Iddio, probabilmente, perché lo aveva invaso il desiderio della solitudine, che gli angeli non conoscono. Andrej Efimyc provò a pensare a ciò che aveva visto e udito in questi giorni, ma Michail Averjanyc non gli usciva dalla testa.
“Ma il fatto è che ha preso la licenza e si è messo in viaggio con me per amicizia, per magnanimità – pensava il dottore con disappunto. – Non ci può essere niente di peggio che questa tutela da amico. E’ buono, in fondo, e magnanimo e allegrone: ma è uggioso.
Insopportabilmente uggioso! Per l’appunto così sogliono riuscire quelle persone, che dicono sempre e soltanto parole intelligenti e buone, ma intanto tu senti che sono persone ottuse”.
Nei giorni che seguirono, Andrej Efimyc si diede malato, e non lasciò la stanza d’albergo. Stava là coricato sul divano, col viso alla spalliera, e si sentiva oppresso quando l’amico voleva distrarlo coi suoi discorsi, riposava quando l’amico era assente. Sentiva un’irritazione contro se stesso per essersi messo così in viaggio, e contro l’amico che di giorno in giorno diventava più loquace e più brioso, con la conseguenza che lui non riusciva più in alcun modo a innalzare i propri pensieri a un livello serio ed elevato.
“Mi sta schiacciando quella realtà di cui parlava Ivan Dmitric – pensava, adirandosi contro la propria piccineria. – Ma del resto, sono tutte sciocchezze… Tornerò a casa, e tutto andrà secondo il solito…” E a Pietroburgo, la stessa storia: passava le giornate intere in albergo, sdraiato sul divano della camera, e si alzava soltanto per qualche bevuta di birra.
Michail Averjanyc, intanto, smaniava di partire per Varsavia.
– Amico mio, ma a che scopo dovrei venire fin là? – diceva Andrej Efimyc con voce supplichevole. – Andateci voi, e a me permettete di tornarmene a casa! Ve ne prego!
– A nessun patto! – protestava Michail Averjanyc. – Vedrete che città stupefacente! Io ci ho vissuto i cinque anni più felici della mia vita!
Mancò ad Andrej Efimyc l’energia di carattere necessaria a mantenere il punto e, reprimendo la sua contrarietà, partì alla volta di Varsavia. Là non mise piede fuori dalla stanza d’albergo, restò sdraiato sul divano, e si rodeva il fegato contro se stesso, contro l’amico e contro i camerieri, così testardi a non voler capire la parlata russa; mentre Michail Averjanyc, secondo il suo solito, ben in salute, vispo e allegro, se la spassava da mattina a sera per la città, e andava in cerca dei suoi antichi conoscenti. Più di una volta passò la notte fuori casa. Dopo una nottata trascorsa non si sa dove, la mattina per tempo tornò in uno stato di grande agitazione, rosso e scapigliato. Continuò per un pezzo a far su e giù per la stanza, borbottando qualcosa fra i denti, poi si fermò e disse:
– L’onore innanzi tutto!
Quand’ebbe passeggiato ancora un po’, si afferrò la testa fra le mani e proferì in tono tragico:
– Sì, l’onore innanzi tutto! Che sia maledetto quel minuto in cui, per la prima volta, mi è saltato in mente di venire in questa Babilonia!
Amico mio, – si rivolse al dottore – disprezzatemi pure: ho perso al gioco. Datemi cinquecento rubli!
Andrej Efimyc contò uno sull’altro i cinquecento rubli e, senza dir parola, li consegnò al suo amico. Quest’ultimo, ancora tutto paonazzo di vergogna e d’ira, sconnessamente pronunciò non so che inutile giuramento, calzò il berretto e se ne riandò. Di ritorno un paio d’ore più tardi, si rovesciò in poltrona, sospirò forte e disse:
– L’onore è salvo! Amico mio, partiamo! Non un minuto di più voglio trattenermi in questa maledetta città. Truffatori! Spioni dell’Austria!
Quando i due amici furono di nuovo nella loro città, era ormai novembre, e per le strade la neve era alta. Il posto di Andrej Efimyc era stato preso dal dottor Chobotov, il quale abitava ancora nel suo vecchio appartamento, ma aspettava il momento che Andrej Efimyc tornasse per fargli sgomberare l’appartamento presso l’ospedale.
Quella tale bruttarella, che egli definiva sua cuoca, abitava già in uno dei padiglioni.
In città giravano sul conto dell’ospedale nuovi pettegolezzi. Dicevano che la bruttarella avesse litigato con l’economo, e che costui le si fosse trascinato innanzi in ginocchio, chiedendole perdono.
Andrej Efimyc, fin dal primo giorno, dovette cercarsi una casa.
– Amico mio, – gli disse timidamente l’ufficiale di posta – scusatemi la domanda indiscreta: di quali mezzi disponete voi?
Andrej Efimyc, in silenzio, conteggiò i suoi denari e disse:
– Ottantasei rubli.
– Non intendevo questo – esclamò, turbato, Michail Averjanyc, non comprendendo come mai il dottore gli avesse risposto così. – Io vi domandavo qual è in tutto la consistenza dei vostri mezzi.
– E io ve l’ho detto chiaro e tondo: ottantasei rubli… Non ho neppure un soldo di più.
Michail Averjanyc teneva il dottore in conto di uomo onesto e nobilissimo, ma sospettava pur sempre che egli avesse da parte un capitale di almeno ventimila rubli. Venendo ora a sapere che Andrej Efimyc era in miseria, che non gli rimaneva di che vivere, d’improvviso, chissà perché, ruppe in lacrime e abbracciò il suo amico.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Andrej Efimyc si adattò in una casetta con tre finestre, di proprietà di una popolana, certa Belova. In questa casetta c’erano in tutto tre stanze, oltre la cucina. Due delle stanze, con le finestre da strada, erano occupate dal dottore, mentre nella terza, e in cucina, vivevano Darjuska e la donna coi suoi tre bambini. Ogni tanto, lì dalla padrona di casa, veniva a pernottare l’amante, un contadino ubriacone, che faceva chiasso tutta notte e incuteva ai bambini e a Darjuska un grande spavento. Quando veniva costui, e piantandosi a sedere in cucina, chiedeva l’acquavite, tutti si sentivano a corto di spazio, e il dottore, impietosito, si prendeva di là i bambini che piangevano, e li accomodava a dormire per terra in camera sua, ciò che gli procurava un grande piacere.
Egli, come sempre, si alzava alle otto, e dopo il tè s’installava a leggere i suoi vecchi libri e riviste. Per comprarne di nuovi, non gli bastavano più i denari. E, fosse che i libri eran vecchi, o fosse il mutamento d’ambiente, la lettura non riusciva più a prenderlo a fondo, e gli dava un senso di noia. Per non passare il tempo senza far nulla, compilò un catalogo dettagliato dei libri che aveva, e andava incollando le etichette ai loro dorsi; e questo meccanico, minuzioso lavoro gli riusciva più interessante che la lettura. Così minuzioso e monotono, questo lavoro era come una strana ninnananna per la sua mente: egli non pensava a nulla, e il tempo gli scorreva veloce.
Perfino starsene in cucina e, in compagnia di Darjuska, sbucciare le patate, o mondare dalle sozzure il grano saraceno, gli parevano operazioni interessanti. Al sabato e alla domenica si recava in chiesa. Ritto a parete, socchiudendo gli occhi, ascoltava il canto sacro e pensava al padre, alla madre, all’università, alle religioni:
gliene veniva un senso di calma, di mestizia, e quando poi usciva di chiesa, sentiva un rammarico che la funzione fosse così presto finita.
Due volte andò all’ospedale da Ivan Dmitric, per scambiare due parole con lui. Ma tutt’e due le volte Ivan Dmitric era eccitato più del solito e pieno di malanimo: gli chiese di esser lasciato in pace, giacché da un pezzo gli era venuto a noia quel vuoto chiacchiericcio, e soggiunse che ai maledetti vigliacchi di qui dentro, in nome di tutte le sue sofferenze, chiedeva una sola ricompensa: che lo tenessero isolato dagli altri. Possibile che anche questo gli rifiutassero? E tutt’e due le volte, quando Andrej Efimyc si congedò da lui e gli augurò la buona notte, arrotò i denti e disse:
– All’inferno!
E così Andrej Efimyc non sapeva più se gli convenisse o no andare a trovarlo una terza volta. Intanto, però, sentiva un desiderio di andarci.
Prima, nel pomeriggio, Andrej Efimyc passeggiava su e giù per le stanze e pensava; ora invece, dal desinare fino al tè della sera, giaceva sul divano col viso alla spalliera e si abbandonava a pensieri gretti, che non riusciva in alcun modo a sopraffare. Si sentiva esacerbato dal fatto che, dopo più di vent’anni di servizio, non gli avessero dato né una pensione, né una sovvenzione per una volta tanto.
Verissimo che, durante il servizio, la sua attività non era stata onesta: ma la pensione la riscuotono tutti coloro che hanno ricoperto un impiego, dal primo all’ultimo, siano stati onesti o no. La moderna giustizia consiste appunto in questo, che promozioni, onorificenze e pensioni vengono a premiare non già le qualità morali e le capacità, ma il servizio che si è prestato, senza discriminazioni. Perché dunque lui solo doveva far eccezione? Di denaro, era sprovvisto del tutto. Si vergognava a passare davanti alla botteguccia di fronte, e ad alzare lo sguardo alla padrona. Soltanto per la birra, era già debitore di trentadue rubli. Alla Belova, sua padrona di casa, doveva pure del denaro. Darjuska, un pochino alla volta, vendeva vecchi abiti e libri, e dava da intendere alla padrona che presto il dottore doveva ricevere una grossa somma.
Gli nasceva dentro una rabbia contro se stesso per avere sprecato in viaggio un migliaio di rubli, che erano tutti i suoi risparmi. Come gli sarebbero venuti buoni, adesso, quei mille rubli! E lo prendeva un disappunto che gli altri non lo lasciassero in pace. Chobotov si considerava in dovere di venire ogni tanto a visitare il collega malato. Tutto, in costui, riusciva odioso ad Andrej Efimyc: la faccia soddisfatta, le maniere di cattivo gusto, piene di degnazione, e quella parola: “collega”, e quegli alti stivaloni; ma quel che era più odioso di tutto, era che credesse suo dovere curare Andrej Efimyc, e fosse persuaso che effettivamente lo curasse. Ogni volta che veniva a trovarlo, portava una fialetta di bromuro e un po’ di pillole di rabarbaro.
E anche Michail Averjanyc riteneva suo dovere visitare l’amico e distrarlo. Ogni volta gli si presentava qui con vivacità fittizia, faceva gran risa forzate, e incominciava ad assicurargli che oggi aveva una magnifica cera, e che gli affari, con l’aiuto di Dio, si sarebbero riaggiustati: e già da questo si poteva intendere che la situazione dell’amico era ai suoi occhi senza speranza. Egli non aveva ancora pagato il suo debito di Varsavia, e quanto più profonda era la vergogna che ne provava, quanto più acuta la tensione, con tanto più impegno cercava di ridere e di rendere faceta la conversazione. I suoi aneddoti e i suoi racconti si prolungavano ora all’infinito, e riuscivano una tortura sia per Andrej Efimyc, sia per lui stesso.
Quando lui era qui, Andrej Efimyc aveva l’abitudine di stare sdraiato col viso verso il muro, e lo ascoltava a denti stretti. Nell’intimo, intanto, strato su strato, gli si veniva accumulando una specie di sedimento: e dopo ogni visita dell’amico sentiva che questo sedimento gli montava sempre più in alto, e stava quasi per arrivargli alla gola.
Per soffocare i sentimenti meschini, si affrettava a rifugiarsi nel pensiero che tutti quanti – lui, Chobotov, Michail Averjanyc – sarebbero spariti un po’ più presto o un po’ più tardi, senza lasciare nella Natura la minima traccia di sé. Se per ipotesi, fra un milione d’anni, in vista del globo terrestre passasse a volo nello spazio un qualche spirito, non apparirebbe nulla ai suoi occhi fuorché argilla e rocce nude. Tutto – civiltà e legge morale comprese – andrà in fumo, da non servir neppure da ingrasso alle erbacce selvatiche. Che significano, di fronte a questo, la vergogna che si può provare dinanzi a un bottegaio, o una nullità come Chobotov, o la gravosa amicizia di un Michail Averjanyc. Sono tutte balordaggini e futilità.
Ma simili riflessioni non gli giovavano più. Non appena si rappresentava all’immaginazione il globo terrestre fra un milione di anni, ecco che da dietro a una di quelle nude rocce spuntava Chobotov coi suoi alti stivaloni o, col suo ridere forzato, Michail Averjanyc:
e anzi ronzava perfino, vergognoso, quel sussurro: “Quanto al debito di Varsavia, amico mio, te lo renderò a giorni… Senza fallo!”
CAPITOLO SEDICESIMO
Una volta Michail Averjanyc si presentò dopo il desinare, mentre Andrej Efimyc si era sdraiato sul divano. Avvenne che in quello stesso momento apparve anche Chobotov, con l’immancabile bromuro. Andrej Efimyc, pesantemente, si sollevò, si mise a sedere, e con tutt’e due le braccia si puntellò sul divano.
– Ma oggi, mio caro, – incominciò Michail Averjanyc – avete un colorito assai migliore di ieri! Siete addirittura un giovanotto!
Com’è vero Iddio, un giovanotto!
– E’ tempo, è tempo di rimettersi in gamba, collega! – disse Chobotov sbadigliando. – Scommetto che voi per primo ne avete piene le tasche, di questa broda lunga!
– Altro che, se ci rimetteremo! – esclamò allegramente Michail Averjanyc. – Ancora cent’anni, tireremo avanti! Proprio così!
– Lasciamo andare cent’anni, ma per una ventina c’è stoffa, ancora – disse Chobotov in tono consolatorio. – Non è niente, collega, non è niente: non vi avvilite… Piantiamola col vedere tutto buio!
– Faremo ancora vedere al mondo chi siamo! – scrosciò a ridere Michail Averjanyc, e diede un colpetto sul ginocchio dell’amico. – Faremo ancora vedere chi siamo! La prossima estate, a Dio piacendo, vogliamo schizzar giù nel Caucaso, e girarcelo tutto a cavallo: hop, hop, hop!
E di ritorno dal Caucaso, vuoi veder che ti combiniamo? festeggeremo uno sposalizio coi fiocchi – e Michail Averjanyc, furbescamente, fece l’occhietto. – Vi daremo una bella moglietta, caro amico nostro… una bella moglietta…
Andrej Efimyc, d’improvviso, sentì che quella specie di sedimento gli arrivava alla gola. Il cuore gli palpitava terribilmente.
– Ma è triviale, tutto questo! – esclamò, levandosi rapidamente e accostandosi alla finestra. – Possibile che non capite di star dicendo delle trivialità?
Aveva intenzione di proseguire in modo remissivo e cortese, ma contro la propria volontà, tutt’a un tratto, serrò i pugni, e li alzò in aria al di sopra della testa.
– Lasciatemi in pace! – proruppe con voce non sua, facendosi paonazzo e tremando da capo a piedi. – Fuori! Tutt’e due fuori, tutt’e due!
Michail Averjanyc e Chobotov si alzarono in piedi e rimasero sospesi a lui con gli occhi, sbalorditi dapprima, poi spaventati.
– Tutt’e due fuori! – continuò a gridare Andrej Efimyc. – Gente ottusa! Gente stupida! Non ho bisogno, io, né dell’amicizia di nessuno, né delle tue medicine, uomo ottuso che non sei altro! Ah che trivialità! Che schifo!
Chobotov e Michail Averjanyc, scambiandosi un’occhiata sconcertata, filarono verso la porta e uscirono in anticamera. Andrej Efimyc agguantò la fialetta del bromuro e gliela scaraventò appresso. La fiala, tintinnando, si frantumò sulla soglia.
– Andatevene all’inferno! – gridò ancora Andrej Efimyc con voce venata di pianto, slanciandosi in anticamera. – All’inferno!
Usciti gli ospiti, tremando come in un accesso di febbre, egli si allungò sul divano e a lungo ripeté ancora:
– Gente ottusa! Gente stupida!
Quando si fu calmato, la prima cosa che gli venne in mente fu che il povero Michail Averjanyc, adesso, avrà sofferto nell’intimo di chissà che vergogna e disagio: e tutto quanto era accaduto gli sembrò, nell’insieme, orribile. Non mai, prima d’oggi, era accaduto qualcosa di simile. Dov’erano finiti la sua intelligenza e il suo tatto? Dove la comprensione delle cose e la filosofica indifferenza?
Tutta notte il dottore non poté prendere sonno dalla vergogna e dal disappunto di se stesso, e quando fu mattina, verso le dieci, si diresse all’ufficio postale e si scusò con l’ufficiale di posta.
– Non stiamo a rivangare quel che è successo – disse con un sospiro, tutto commosso, Michail Averjanyc, serrandogli forte la mano. – Acqua passata non macina più. Ljubavkin! – di colpo chiamò con voce così alta che tutti gli impiegati della posta, e il pubblico presente, sussultarono. – Porta qui una sedia… E tu, aspetta! – gridò a una donna del popolo che, attraverso lo sportello, gli protendeva una lettera raccomandata. – Non vedi che sono occupato? Non pensiamo più a quel che è stato – riprese affettuosamente, rivolgendosi ad Andrej Efimyc. – Sedetevi, ve ne prego umilmente, amico mio.
Per qualche istante, in silenzio, si lisciò le ginocchia, e poi disse:
– Io non mi sono neppur sognato di offendermi per quel che avete detto. La malattia non si comanda mica, lo capisco benissimo. La vostra crisi di ieri sera ci ha fatto paura, tanto a me che al dottore, e ci siamo trattenuti un pezzo a parlare di voi. Amico mio, perché non volete pensare seriamente alla vostra malattia? Vi pare possibile andare avanti così? Scusate la mia franchezza d’amico, – e Michail Averjanyc abbassò la voce: – voi vivete in un ambiente così disagiato, nessuna assistenza, nessuna possibilità di acquistar medicine… Amico mio caro, io e il dottore vi preghiamo con tutta l’anima, date ascolto al nostro consiglio: vogliate entrare all’ospedale! Là il vitto è sano, l’assistenza non manca, e c’è modo di curarsi. Evgenij Fedorovic è un po’ MAUVAIS TON, a dirla fra noi, ma nel suo campo è competente, e ci si può pienamente fidare di lui.
egli mi ha dato la sua parola d’onore che si occuperà di voi.
Andrej Efimyc fu toccato dalla sincerità di queste premure, e dalle lacrime che d’improvviso luccicarono sulle guance dell’ufficiale di posta.
– Amico mio, non prestate fede! – gli mormorò, ponendosi una mano sul cuore. – Non prestate fede a quell’uomo! Non è che un inganno! La mia malattia sta tutta nel fatto che nel corso di vent’anni ho trovato, in tutta la città, un solo uomo intelligente, e questo era un pazzo.
Malato, io, non sono minimamente: il fatto è che sono incappato in un cerchio magico, dal quale non c’è modo di uscire. Di nulla m’importa più, sono pronto a ogni cosa.
– Entrate all’ospedale, amico mio.
– Per me, dovunque è lo stesso, andassi pure in una fossa.
– Promettetemi, caro, che seguirete in tutto i consigli di Evgenij Fedoryc.
– Se vi fa piacere, ve lo prometto. Ma ripeto, buon amico, che sono incappato in un cerchio magico. Ormai tutto, perfino il sincero interessamento dei miei amici, cospira a un sol fine: alla mia rovina.
Io sto precipitando nell’abisso, e ho la virilità di rendermene conto.
– Ma caro, voi guarirete!
– Che scopo c’è a dir così? – esclamò Andrej Efimyc con esasperazione.
– Pochi sono quelli che, sul finire della vita, non hanno a provare quello che appunto ora provo io. Quando vi si dirà che avete qualcosa sul genere di un rene malato, o di un ingrossamento al cuore, e voi comincerete a farvi curare; o quando vi si dirà che siete un pazzo, o un criminale, e insomma tutto d’un tratto la gente rivolgerà su di voi la sua attenzione: ebbene, sappiate che allora voi siete incappato in un cerchio magico dal quale non avrete più modo di uscire. Farete dei tentativi per uscirne, e non otterrete che di perdervi peggio. Cessate ogni resistenza, giacché non c’è sforzo umanamente possibile che riuscirà a salvarvi. Così credo io.
In questo frattempo, allo sportello dell’ufficio, s’accalcava il pubblico. Andrej Efimyc, per non disturbare, si alzò e fece per congedarsi. Michail Averjanyc volle da lui la riconferma di quella promessa, e lo accompagnò fino alla porta di strada.
Quel giorno stesso, prima di sera, in casa di Andrej Efimyc, inaspettatamente comparve Chobotov in pelliccetta di pecora e stivaloni alti, e disse con un tono, come se ieri non fosse accaduto nulla:
– Sono qui da voi per cose del mestiere, collega. Sono venuto a farvi una proposta: volete accompagnarmi a un consulto?
Pensando che Chobotov volesse distrarlo con una passeggiata, o che effettivamente gli offrisse da guadagnare, Andrej Efimyc si vestì e uscì con lui in strada. Si sentiva felice, nell’intimo, di cancellar la sua mancanza di iersera, e di rifare la pace; e tra sé ringraziava Chobotov che non facesse parola dell’accaduto e che, a quanto pareva, fosse magnanimo con lui. Da un uomo così poco raffinato non era facile aspettarsi tanta delicatezza.
– Ma dove sta il vostro malato? – domandò Andrej Efimyc.
– Su da me, all’ospedale. E’ un pezzo che io volevo farvelo vedere…
Si tratta di un caso interessantissimo.
Entrarono nel recinto dell’ospedale e, girando al largo del fabbricato centrale, si diressero al padiglione dov’erano sistemati i mentecatti.
Tutto questo, chissà come, senza dir parola. Quando entrarono nel padiglione, Nikita, secondo la consuetudine, balzò su dal ciarpame e si stiracchiò.
– C’è qui uno che ha una complicazione polmonare – disse a mezza voce Chobotov varcando con Andrej Efimyc la soglia della corsia. – Voi aspettatemi qui dentro, che torno subito. Corro a prendere lo stetoscopio.
E se ne andò.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Era ormai il crepuscolo. Ivan Dmitric stava sdraiato sul suo giaciglio, con la faccia affondata nel guanciale; il paralitico sedeva immobile, piangendo senza rumore e muovendo le labbra. Il grosso contadino e l’ex impiegato postale dormivano. Lo stanzone era silenzioso.
Andrej Efimyc si era seduto sul giaciglio di Ivan Dmitric e aspettava.
Ma passò una mezz’ora, e invece di Chobotov entrò in corsia Nikita, tenendo fra le braccia un camicione, qualche capo di biancheria e un paio di ciabatte.
– Favorite vestirvi, Eccellenza – disse tutto calmo. – Questo qua è il vostro letto; favorite venire qua – soggiunse, accennando a un lettuccio vuoto che era stato evidentemente portato da poco. – A Dio piacendo, vi rimetterete.
Andrej Efimyc comprese tutto. Senza dire una parola, passò oltre, fino al giaciglio che Nikita gli indicava, e vi sedette; poi, vedendo che Nikita restava lì ritto in attesa, si spogliò a nudo e fu colto da un senso di vergogna. Quindi indossò quei panni d’ospedale. I calzoni gli stavano cortissimi, la camicia lunga, e dalla tunica emanava un lezzo di pesce affumicato.
– Vi rimetterete, a Dio piacendo – ripeté Nikita.
Fece una bracciata dei vestiti di Andrej Efimyc, uscì, e si chiuse dietro la porta.
“Non c’è nessuna differenza… – pensò Andrej Efimyc mentre, vergognoso, si avvoltolava nella vestaglia e sentiva di essere, in questa nuova tenuta, simile a un carcerato. – Nessuna differenza…
Son tutta una cosa, o frac, o divisa, o questa vestaglia…” Ma l’orologio? E il taccuino degli appunti che stava nella tasca di fianco? E le sigarette? Dove li aveva portati, Nikita, i suoi indumenti? Da questo momento in poi, fino alla morte, non si sarebbe parlato più, per lui, di mettere i pantaloni, il gilè, le scarpe.
C’era, in tutto questo, qualcosa di strano e perfino d’inspiegabile, così in un primo momento! Andrej Efimyc era convinto, tuttora, che fra la casupola della Belova e il reparto numero 6 non ci fosse la minima differenza, e che ogni cosa, a questo mondo, fosse sconclusionatezza e vanità delle vanità; ma intanto le mani gli tremavano, i piedi gli si facevano di gelo, e gli veniva un’ombra angosciosa dal pensiero che, fra poco, Ivan Dmitric si sarebbe levato su, e avrebbe visto che lui stava in vestaglia. Si alzò in piedi, fece qualche passo, e tornò a sedersi.
Così seduto restò una mezz’ora, un’ora, finché lo sopraffece un’uggia così acuta da mutarsi in ambascia: ma com’era possibile, qui dentro, passare una giornata intera, una settimana, o addirittura degli anni, come questa gente? Ecco, era stato a sedere sul letto, aveva fatto due passi, e poi era tornato a sedersi; avrebbe potuto, ancora, andare a dare un’occhiata alla finestra, per quindi, daccapo, far su e giù da un cantone all’altro. E dopo? Davvero, dunque, star sempre qua fermo come un idolo, a pensare? No, ridursi a questo non era possibile.
Andrej Efimyc si allungò giù: ma subito si raddrizzò, si terse dalla fronte, con la manica, il sudore freddo, e sentì che tutto il viso gli aveva preso un puzzo di pesce affumicato. E di nuovo si mise a camminare.
– Qui c’è stato un malinteso… – si mormorò tra le labbra, allargando le braccia in atto di sconcerto. – Bisogna venire a una spiegazione:
si tratta di un malinteso…
In quel mentre, Ivan Dmitric si svegliò. Si tirò su a sedere, e si puntellò le guance coi pugni. Lanciò uno sputacchio; poi pigramente allungò un’occhiata al dottore, e così di primo acchito sembrò che non capisse nulla: ma ben presto il suo viso sonnolento si fece maligno e beffardo.
– Ahàh, è toccata anche a voi di esser chiuso qui dentro, tesoro mio!
– esclamò con voce ancor roca di sonno: e strizzò un occhio. – Felicissimo! Finora, siete stato voi a bere il sangue alla gente; d’ora in poi, saranno gli altri che lo berranno a voi. Magnificamente.
– Qui si tratta di un malinteso… – disse Andrej Efimyc, spaventato dalle parole di Ivan Dmitric; e stringendosi nella spalle, ripeté: – Un malinteso, nient’altro…
Ivan Dmitric fece un altro sputacchio, e si allungò.
– Vita maledetta! – grugnì. – E quel che è più amaro, quel che cuoce di più, è che questa vita, non è vero?, non metterà capo a una ricompensa di tante sofferenze, non metterà capo a un’apoteosi, ma alla morte: verranno questi contadini, prenderanno il cadavere per le braccia e per le gambe,e lo trascineranno alla fossa. Brrr! Ma via, non importa… In cambio, all’altro mondo, la festa sarà nostra… Io, dal mondo di là, voglio scendere quaggiù come uno spettro, e atterrire queste bestie immonde. Gli farò mettere i capelli bianchi!
Tornò, da fuori, Moisejka, e a vedere il dottore, stese la mano.
– Datemi il soldino! – gli disse.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Andrej Efimyc si appartò alla finestra, e guardo verso la campagna.
Ormai si era fatto buio, e all’orizzonte, da destra, saliva fredda, paonazza, la luna. Poco lontano dal recinto dell’ospedale, a non più di duecento metri di distanza, si drizzava alta e bianca una casa circondata da un muraglione di pietra. Erano le carceri.
“Eccola, la realtà!” si disse Andrej Efimyc, e fu colto da un senso d’orrore.
Tutto incuteva terrore: quella luna, e quelle carceri, e quei chiodi lungo il recinto, e la remota fiamma del forno crematorio. Risonò, alle sue spalle, un sospiro. Andrej Efimyc si voltò, e gli apparve un individuo col petto luccicante di stelle e di decorazioni, intento a sorridere e a strizzare l’occhio. E anche da questo spirava un orrore.
Provò, Andrej Efimyc, a persuader se stesso che in quella luna, o in quelle carceri, non c’era niente di singolare, e che anche delle persone psichicamente sane portano tanto di decorazioni, e che ogni cosa, col passar del tempo, imputridirà e si muterà in argilla; ma la disperazione, a bruciapelo, s’impossessò di lui; con tutt’e due le mani si afferrò all’inferriata, e con tutta la forza scrollò. La robusta inferriata non cedette.
Poi, per sottrarsi in qualche modo a tanto orrore, si avvicinò al giaciglio di Ivan Dmitric, e vi sedette.
– Mi sento giù di spirito, mio caro – mormorò rabbrividendo. – Mi sento giù di spirito.
– E voi confortatevi con la filosofia! – esclamò beffardo Ivan Dmitric.
– Dio mio, Dio mio… Sì, sì… Voi, una volta, mi diceste che in Russia non esiste la filosofia, ma tutti filosofeggiano, perfino i pesciolini da pantano. Ma vedete, che i pesciolini filosofeggino, non porta mica nessun danno! – esclamò Andrej Efimyc in un tono come se volesse rompere in lacrime e destare pietà. – Perché allora, amico mio, questo riso maligno? E come volete che quei pesciolini non filosofeggino, se essi non si sentono soddisfatti? Un uomo intelligente, istruito, orgoglioso, amante della libertà, un uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, non ha innanzi altra via fuorché andarsene a fare il medicastro in una lercia, stupida cittadina, e finché campa, nient’altro che mignatte, vescicanti, senapismi! Tutt’intorno, ciarlatanesimo, grettezza, trivialità! Oh, Signore mio!
– Voi state ciarlando scioccamente. Se fare il medico vi ripugnava, dovevate fare il ministro.
– Nessun posto, nessun posto fa per noi. Siam deboli noi altri, mio caro… Io ero così indifferente a tutto, ragionavo con tanta baldanza, così giustamente: eppure è bastato che la vita mi facesse sentire il suo contatto brutale, perché subito io mi accasciassi…
subito questa prostrazione… Siam deboli noi altri, siam poveri cenci… E voi lo stesso, amico mio. Siete intelligente, siete nobile d’animo, avete succhiato col latte materno gli slanci generosi, ma non appena avete varcato la soglia della vita, subito vi son mancate le forze e vi siete ammalato… Deboli, deboli tutti!
Qualcosa di ancora indefinibile, oltre il terrore e il senso d’offesa, veniva opprimendo Andrej Efimyc fin da quando era scesa la sera. Alla fine, egli si rese conto che era una voglia di birra e di tabacco.
– Io voglio uscire di qui, amico mio – esclamò. – Dirò che portino qui un lume… Non posso star così… supera le mie forze…
E Andrej Efimyc si accostò alla porta e l’aprì: ma immediatamente Nikita saltò su, e gli sbarrò la strada.
– Dove andate? Non è permesso, non è permesso! – gli disse. – E’ ora di dormire.
– Ma io chiedo di uscire giusto un momento, a far due passi in cortile! – s’intimidì Andrej Efimyc.
– Non si può, non si può, è proibito. Siete il primo a saperlo.
Nikita gli sbatté in faccia la porta e ci si appoggiò con la schiena.
– Ma se io uscissi di qui, ne verrebbe niente a nessuno? – domandò Andrej Efimyc, stringendosi nelle spalle. – Non capisco, proprio!
Nikita, io debbo uscire! – incalzò con voce tremante. – Ne ho assoluto bisogno!
– Non mettete su disordini, fareste male! – ribatté, autorevole, Nikita.
– Ma cosa diavolo s’ha da vedere! – proruppe d’improvviso Ivan Dmitrik, e saltò giù dal letto. – Che diritto ha costui di proibire che si esca? Come osa, questa gente, tenerci chiusi qui dentro? Il codice, se non sbaglio, dice chiaro che nessuno può essere privato della libertà senza una procedura legale. Questa che ci fanno è una violenza! E’ un arbitrio!
– Indubbiamente, è un arbitrio! – esclamò Andrej Efimyc, riconfortato dal grido di Ivan Dmitric. – Io ne ho assoluto bisogno, debbo uscire di qui! Costui non ha alcun diritto! Lasciami passare, ti dico!
– Ci senti, bestiaccia ottusa? – gridò Ivan Dmitric, e picchiò col pugno contro la porta. – Apri, altrimenti io mando in pezzi la porta!
Aguzzino!
– Apri! – gridò Andrej Efimyc, tremando da capo a piedi. – Lo esigo!
– Di’ ancora una parola! – ribatté, da dietro la porta, Nikita. – Di’ una parola sola!
– Per lo meno, va’ a dire a Evgenij Fedorovic che venga qui! Digli che io lo prego di farsi vedere… per un istante!
– Domani, ci pensa da sé a venire.
– Non sarà mai che ci lascino uscire! – continuava a gridare intanto Ivan Dmitric. – Ci faranno marcire qui dentro! Oh, Signore, ma possibile davvero che, in un altro mondo, non ci sia l’inferno, e che questi malfattori saranno perdonati? Dov’è dunque la giustizia? Apri, mascalzone, che io soffoco! – urlò con voce roca, e si avventò contro la porta. – Dovessi fracassarmi la testa! Assassini!
Allora Nikita, rapido, spalancò la porta; brutalmente, con tutt’e due le mani e col ginocchio, ricacciò indietro Andrej Efimyc; poi, prese lo slancio e lo colpì col pugno in faccia. Andrej Efimyc ebbe l’impressione che un’enorme onda salsa lo sommergesse fin sopra alla testa, e lo respingesse verso i giacigli; in bocca, effettivamente, aveva un senso di sale: dovevano essere i denti che gli facevano sangue. Come se volesse risommare a nuoto, annaspò con le mani e si aggrappò al primo giaciglio che gli capitava: e in quello stesso momento sentì Nikita, due volte, percuoterlo sulla schiena.
Alte grida mandava anche Ivan Dmitric. Evidentemente, picchiavano anche lui.
Poi tutto fu silenzio. La liquida luce lunare passava attraverso le inferriate, e sull’impiantito si stampava un’ombra simile a una rete.
C’era qualcosa di pauroso. Andrej Efimyc s’era coricato e stava col fiato sospeso: pieno d’orrore, si aspettava altre percosse. Era come se qualcuno avesse preso un falcino, glielo avesse immerso in corpo, e ripetutamente glielo rigirasse nel petto e nelle reni. Dal dolore morse il guanciale e arrotò i denti, e tutt’a un tratto, fra il caos che aveva in testa, limpido gli balenò il tremendo, insopportabile pensiero che appunto un dolore come questo dovevano aver provato per anni, un giorno dopo l’altro, questi uomini che ora, al chiarore della luna, nereggiavano come ombre. Come mai, per un periodo di più che vent’anni, era potuto accadere che egli non sapesse questo, e non volesse saperlo? Era rimasto ignaro, non aveva avuto idea di tanto dolore, e dunque non gli si poteva imputare a colpa: ma la coscienza, altrettanto rude e di poche parole quanto Nikita, lo fece raggelare dalla nuca ai calcagni. Saltò a terra, fece per urlare di tutta forza e lanciarsi a correre, a uccidere Nikita, a uccidere Chobotov, l’economo e l’assistente, e infine se stesso; ma dal petto non gli uscì nessun suono, e le gambe non gli obbedirono: ansando, si squarciò sul petto la vestaglia e la camicia, le fece in pezzi, e fuori dei sensi stramazzò sul giaciglio.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
La mattina seguente la testa gli doleva, aveva un rombo nelle orecchie, e in tutte le membra sentiva un’estenuatezza. Il ricordo della sua debolezza di iersera non gli dava vergogna. Iersera era stato pusillanime, aveva avuto paura perfino della luna, e si era lasciato affiorare nudi alla coscienza certi sentimenti e pensieri che finora non aveva neppure sospettati in se stesso. Per esempio, quei pensieri sullo stato d’insoddisfazione dei pesciolini da pantano. Ma adesso, di nulla gli importava più.
Non toccava cibo, non beveva, stava là sdraiato immobile, e taceva.
“Di nulla m’importa – pensava, quando gli rivolgevano qualche domanda.
– Non val la pena di rispondere… Di nulla m’importa più”.
Nel pomeriggio, venne Michail Averjanyc e portò un etto di tè e una libbra di marmellata. Darjuska venne anche lei, e per lo spazio di un’ora se ne stette alla sponda del letto con quella sua espressione di ottusa afflizione sul viso. Anche il dottor Chobotov fece la sua visita. Egli portò la fialetta col bromuro, e diede ordine a Nikita che di tanto in tanto spandesse nello stanzone qualche sostanza odorosa.
Sul far della sera, Andrej Efimyc morì, colpito da apoplessia.
Dapprima fu sorpreso da un brivido che lo squassava tutto, e da un senso di nausea: un che di rivoltante, compenetrandolo in tutte le membra, fin nelle dita, gli montava dallo stomaco alla testa, e gli sommerse gli occhi e le orecchie. Un verde gli balenò agli occhi.
Andrej Efimyc comprese che era arrivata per lui la fine, e gli sovvenne che Ivan Dmitric, Michail Averjanyc e milioni di altri uomini credevano nell’immortalità. Che davvero, d’improvviso, questa gli si aprisse? Ma d’immortalità, lui, non aveva voglia; e non vi fermò il pensiero più di un istante. Un branco di cervi, supremamente belli e aggraziati, di cui aveva letto iersera, gli trasvolò accanto; poi una donna del popolo gli protese la mano con una lettera raccomandata…
Si sentì Michail Averjanyc pronunciar qualche parola… Dopo, tutto svanì, e Andrej Efimyc perdette la coscienza per sempre.
Sopravvennero gli uomini di fatica, lo agguantarono per le braccia e per i piedi e lo trasportarono alla cappella. Là rimase disteso sulla tavola, con gli occhi aperti, e la luna, quando fu notte, venne a illuminarlo. Al mattino si presentò Sergej Sergeic, devotamente recitò le sue preghiere al Crocifisso, e chiuse le palpebre al suo ex direttore.
Il giorno seguente Andrej Efimyc fu portato al camposanto. Al funerale c’erano soltanto Michail Averjanyc e Darjuska.