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Liberate Jacopo: storia di un diritto negato

Storia di  un diritto negato, storia almeno di un diritto rivendicato. Il dramma della storia di Jacopo apre alla tragedia istituzionale: quanti Jacopo? Le strutture ne sono piene.

Il sistema funziona così: si spersonalizza per istituzionalizzare. Troppi non hanno più nessuno a sostenere il proprio racconto, la propria narrativa. Chi non ha un genitore, chi non ha un tutore, un riferimento valido e presente, non ha nessun diritto all’autodeterminazione, alla scelta del proprio percorso e delle proprie scelte di vita, seppur nei propri limiti e con il dovuto sostegno. Annullare serve ad abbattere desideri particolari, perchè l'”utente” si deve prima di tutto conformare ad un ritmo istituzionale. Turni, mansionario, procedure. Non c’è spazio per le storie personali.

La storia di Jacopo, oltre all’orribile modus operandi istituzionale che vede cooperative e servizi impegnati sullo stesso fronte spersonalizzante, ci parla anche di alcune contraddizioni: mentre i cuscinetti sulle braccia vengono demonizzati pare nornale che un ragazzo possa versare sul tavolo bava alla bocca dai farmaci. Per non prendersi la responsabilità della crisi la si nega, “gestire” diventa così “espropriare”, questa la logica istituzionale. Negando la crisi si nega la persona, per la paura dello “scompenso” la si annulla.

La prassi istituzionale ha bisogno di “ridurre la complessità” per stardandizzare la risposta.

Nelle “professioni di cura” subentra il problema della “catena della  responsabilità”: nessuno la vuole. La si toglie al ragazzo delegittimandolo totalmente ma nessuno se la prende davvero, in questo caso all’unico che la vorrebbe, viene tolta.  In mano alla sterilità dei “servizi”, come sacchi di patate, vuoti a perdere. Gli “specialisti”, gli “psichiatri” non conoscono affatto le persone che seguono, dagli ambulatori dove sono chiusi seguono procedure e bugiardini impartendo prassi di esclusione per liberare i “professionisti” che seguono (cooperative, strutture, coordinatori e operatori) dalla temuta “responsabilità”. Per questo si preferisce annulare Jacopo. Così non succede niente.  Non succedendo “niente” non ci saranno nemmeno crisi,  per buona pace di tutti i “professionisti” e delle prassi istituzionali.

Siamo con Jacopo, Roberto e con la signora Vanna, espropriata anch’essa di autodeterminazione e volontà dalla risposta istituzionale.

E che dire di una comunità completamente assente?

Siamo con loro e con tutt* gli internati espropriati di storia e significato che non trovano voce.


Articolo di Fatima Mutarelli 

Pubblicato su Osservatorio Repressione

In zona Firenze può capitare di imbattersi in uno striscione “Liberate Jacopo” e, con esso, nella storia di un uomo al quale sono legate le vicende e la lotta di Roberto De Certo, musico-terapeuta ed educatore fiorentino.

Jacopo P. ha quasi 50 anni, ed è affetto da autismo e da crisi autolestiche.

Dopo la morte del marito, l’anziana madre lo affida, nel 2012, ad una casa di cura per disabili perché affronti un programma di riabilitazione psicosociale: viene ridotto, però, ad un uso continuo di psicofarmaci, tale da privare Jacopo di ogni volontà e, quindi, di ogni possibilità di crescita verso una maggiore autonomia.

La madre Vanna, psicologa e donna combattiva, non si arrende a questo disegno del destino e si apre all’ alternativa terapeutica proposta da Roberto De Certo.

Con Roberto, Jacopo si avvia ad un percorso di inclusione sociale e di piccole conquiste quotidiane per essere più autonomo.

Il sogno dei genitori di Jacopo sembra realizzarsi.

Ma l’ostacolo più insormontabile non sarà rappresentato dalla disabilità, bensì da una guerra ad armi impari tra Istituti, psichiatri, avvocati, amministratori di sostegno, da un lato, e il donchisciottiano Roberto, dall’altro.

Un infortunio di Vanna fa attivare un ingranaggio meschino: il giudice nomina un amministratore di sostegno per la donna e, di conseguenza, un curatore per Jacopo: applicando un provvedimento restrittivo, vieta praticamente a Jacopo di uscire dall’istituto e di vedere Roberto.

Volevo chiedere a mio figlio che tipo di vita avrebbe voluto fare” dice Vanna in una intervista alle Iene del 2018; nel frattempo l’Istituto fiorentino, sotto la pressione mediatica, trasferisce il paziente in altra sede.

La donna, provata fisicamente e psicologicamente dagli eventi e dalla separazione dal figlio muore un anno dopo.

Chiedere a Jacopo e dargli la possibilità di scelta come sancito dalla convenzione Onu.

Ma a Jacopo non è concesso.

“Liberate Jacopo” è la voce per dare voce a Jacopo, e non solo.

Liberate Jacopo: liberatelo dal limbo di una reclusione forzata, da una cura incentrata prettamente sugli psicofarmaci.

Liberate Jacopo perché viva la vita nelle sue possibilità e vivendo, possa scegliere e  rispondere ad una semplice domanda “Quale è la vita che vorresti?”

Liberate Jacopo: storia di un diritto negato