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Salute mentale

“Riabilitazione”, “lavoro” e “salute mentale” #2

Prima parte qui

Pubblicato sulla rivista www.lavoroculturale.org

Una voce critica come poche se ne trovano in giro tra “operatori” ed “esperti” della “salute mentale”.

Scritto di  Riccardo Ierna, voce resistente, anti-istituzionale, psicologo, operatore della salute mentale in prima linea per la diffusione di pratiche e  saperi in direzione ostinata e contraria. Attualmente è impegnato nella singolare esperienza del centro sperimentale Marco Cavallo, Centro Sperimentale Pubblico per la Salute Mentale di Comunità.

Oggi nei contesti istituzionali dare reali opportunità di vita è una guerra. Viviamo una profonda anomia, fuori e dentro, che non trova voce in nessun luogo.

Occorre volontà politica e volontà reale di cambiare le cose da parte di chi ha il potere di farlo.

E’ questo il nostro invito ai lavoratori e alle lavoratrici resistenti e solidali, alle voci  critiche e libertarie che lavorano nella contraddizione: di esercitare il potere che hanno di cambiare le cose. 

il processo di cambiamento e potere personale non potrà mai essere esclusivamente individuale ma dovrà giocarsi all’interno di rapporti di forza che fondano le stesse relazioni di potere, cioè dovrà scaturire da un agire collettivo, da un atto politico.

Per questo vogliamo riappropriarci del nostro sapere e del nostro quotidiano, ridiscuterlo insieme, in modo assembleare e aperto, entrando anche nelle nostre contraddizioni. Questi scritti sono una denuncia che non si trova facilmente in giro, sono un invito alla lotta politica e alle possibilità trasformative dell’unione tra lavoratori, “esperti” e sensibilità solidali. 

esplorare pratiche e luoghi dove quotidianamente si costruisce salute mentale, e questi luoghi non sono i luoghi sanitari ma i luoghi sociali.

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“Protagonismo”, “partecipazione” e culture dell’empowerment in Italia: una nota critica.

Il processo di divaricazione e compartimentalizzazione della psichiatria nelle sfere della “cura” e della “riabilitazione” è in atto ancora oggi, ma con un’aggravante: alcuni eredi del movimento anti-istituzionale e della “psichiatria comunitaria” si sono fatti sedurre dai nuovi modelli di psichiatria sociale di stampo anglosassone e statunitense e ne hanno importato non solo le parole d’ordine (recovery[1] ed empowerment tanto per citare quelle oggi più in voga) ma anche una certa “ideologia della partecipazione”. Da questo punto di vista, appare molto interessante la declinazione che i termini “partecipazione” e “protagonismo” hanno avuto negli ultimi anni in Italia, in riferimento alla condizione degli utenti psichiatrici. Pensiamo ad esempio alla questione estremamente delicata e contraddittoria dell’uso dell’esperienza di sofferenza individuale come sapere “esperto” al servizio dei Dipartimenti di Salute Mentale[2]. Immaginiamo la complessità di questa “soluzione” e della proposta di trasformare questa esperienza in un lavoro pagato dal dipartimento in una psichiatria italiana come quella attuale (nella miseria delle sue pratiche). Sul piano della partecipazione pensiamo a quanto ritrovare le parole, avere voce, narrare la propria esperienza di “malattia”[3] sia oggi diventato estremamente più facile rispetto a quarant’anni fa e per questo anche più facilmente recuperabile dall’ideologia dominante. Perché non basta ritrovare le parole e narrare la propria esperienza di sofferenza quando si è senza lavoro, senza una casa propria, senza una rete sociale. Può diventare estremamente pericolosa questa forma consolatoria di partecipazione perché può dare l’illusione di un’integrazione sociale che non esiste, perché non è su questo livello di “partecipazione” che si fonda una reale inclusione sociale, ma sulla possibilità di agire diritti concreti di cittadinanza, di lavoro, di vita associata, di legame sociale e noi vediamo troppo spesso che queste componenti mancano ad un’analisi più accurata delle condizioni reali delle persone. Cioè vediamo persone che a un certo punto ci chiedono di poter avere un lavoro, un’occupazione che le faccia sentire parte di una comunità, che dia loro la possibilità di emanciparsi da una condizione di dipendenza familiare e sociale, che le faccia sentire utili, che valorizzi le loro competenze e le loro capacità e le faccia uscire dalla condizione di “malati”. E vediamo persone che sono stanche di vivere in appartamenti “protetti”, e poi “meno protetti”, e poi “leggeri” e che vorrebbero semplicemente vivere autonomamente in case dove possono gestire la loro vita senza che ci sia sempre qualcuno a controllare ciò che fanno e come lo fanno. O che vivono dentro “appartamenti a tempo” in progetti di “residenzialità leggera” che prevedono dopo alcuni mesi che le persone debbano lasciare i luoghi che hanno abitato e con cui hanno cominciato a familiarizzare. E vediamo persone che tornano in crisi perché dopo mesi di stage, di tirocini formativi, di inserimenti temporanei in azienda rimangono senza lavoro e ritornano in una condizione di isolamento e di disperazione. Oppure vediamo persone molto giovani che pur di avere il minimo di sussistenza preferiscono l’assegno di invalidità piuttosto che entrare nel girone degli inserimenti lavorativi senza sbocchi, o che si stancano dei percorsi di socializzazione dopo che si rendono conto che essi non costituiranno mai un’opportunità di occupazione lavorativa concreta. Giovani donne e uomini che mantengono il ruolo di “malato” pur di conservare un reddito minimo di sopravvivenza quotidiana. E infine vediamo persone eclissarsi lentamente e morire in solitudine nell’indifferenza generale o compiere quel gesto finale di auto-annientamento da sempre taciuto e stigmatizzato da operatori e opinione pubblica.

Mi chiedo allora quale sia il senso di certe politiche dipartimentali che fondano la loro “mission” riabilitativa e di “inclusione sociale” sullo stanziamento di fondi quasi esclusivamente finalizzati a percorsi di volontariato, che non costruiscono assieme ad altri attori sociali un tavolo permanente di progettazione partecipata che incida realmente sulle politiche sociali e del lavoro, che non si facciano promotori reali di salute mentale attraverso un investimento concreto sulle risorse imprenditoriali del territorio e mi chiedo anche quale sia il senso di “investire” sulla sofferenza personale o familiare per farne un lavoro salariato a libro paga di un servizio di salute mentale. Perché poi occorre fare i conti con due questioni molto sottovalutate poste da questa operazione: la prima è sottilmente legata a una condizione che di fatto rimane interna al circuito psichiatrico. In questo senso la condizione di utente/familiare esperto è temporanea o permanente? Se quello di “utente o familiare esperto” diviene un lavoro, che implicazioni può avere rispetto alla vita di una persona e ai suoi rapporti con l’istituzione? Che livelli di autonomia e di dipendenza possono determinarsi in una situazione in cui chi lavora è anche colui che è/o è stato gestito psichiatricamente (come utente, ex-utente o familiare) dal proprio datore di lavoro? La seconda riguarda il ridimensionamento degli operatori, delle risorse e la chiusura o l’accorpamento dei servizi. L’impressione del tutto personale è che a fronte di una politica di tagli e a un ridimensionamento drammatico delle risorse umane nei servizi, si “utilizzi” una forza lavoro sottopagata e non professionalizzata per compensare questa carenza ormai strutturale delle politiche sanitarie, da un lato deresponsabilizzando ulteriormente il servizio, dall’altro creando un piccolo esercito di riserva di para-operatori sottopagati a disposizione del dipartimento. Non dimentichiamoci che la maggior parte degli utenti e dei familiari esperti è stata ed è in molti casi ancora in carico al DSM (e sul suo bilancio). Oggi queste stesse politiche dipartimentali intendono rappresentare l’avanguardia della psichiatria italiana e pensano di fare innovazione in questo campo proponendo “avanzamenti legislativi” nella direzione dei loro approcci[4]. Oltre questo c’è poco altro, se non lo squallore di una psichiatria intrisa di biologismo, nosografismo e tecnicismo psy. Esiste evidentemente uno scarto tra questi due livelli operativi, ma si tratta di uno scarto solo apparentemente ampio dal punto di vista qualitativo. La “psichiatria comunitaria” o “sociale” italiana mostra una debolezza delle prassi che solo in parte è compensata dai riferimenti e dai modelli teorici e culturali che sembra aver “assimilato” dall’estero[5].

Per quanto ci si sforzi di rappresentare un campo di innovazione sociale e professionale, è evidente il paradosso di una “clinica” che mantiene inalterati i rapporti di forza, a fronte di una “riabilitazione” che continua a fare da corollario a pratiche coercitive, invalidanti ed escludenti. Il “malato” insomma, non esce dal quel ruolo codificato di “deviante” e “improduttivo” che la psichiatria continua storicamente ad assegnargli (quando è in crisi lo psichiatra torna a gestirlo e a contenerlo con i vecchi metodi restrittivi) e non basta un’operazione di “maquillage istituzionale” per coprire un re che continua a essere nudo. Questa “expertise” dell’utente rischia anzi di rivelarsi un boomerang, dal momento che gli dà l’illusione di aver accorciato la distanza dallo psichiatra e dagli operatori e di esercitare una maggiore libertà di azione mentre, di fatto, lo vincola ancor più al sistema psichiatrico che lo gestisce. La sua esperienza, dunque, non è più funzionale all’autonomia e al diritto di cittadinanza che si esercitano sempre al di fuori della psichiatria, ma al mantenimento di quello stesso sistema da cui cerca di liberarsi[6].

Miseria delle pratiche, miseria dei servizi, miseria della psichiatria: come tornare a fare salute mentale?

Mi pare, insomma, che noi continuiamo a usare formule vuote per colmare un vuoto quarantennale di pratiche. Quelle che avrebbero dovuto proseguire il lavoro politico e pratico del movimento anti-istituzionale e di cui ovviamente non esiste documentazione alcuna negli archivi dipartimentali o nelle biblioteche universitarie. Abbiamo bisogno di importare modelli stranieri[7], linguaggi provenienti da altri Paesi, con culture, politiche e sistemi sociali diversi dal nostro perché non abbiamo più molto da dire sulle nostre pratiche attuali. Abbiamo bisogno di mostrare numeri, di fare un’epidemiologia dei costi e delle risorse finanziarie, quando abbiamo dimenticato il ruolo fondamentale di una vera epidemiologia critica dei servizi che consiste nell’analisi accurata e interpretativa di certi numeri, del loro significato in rapporto alle pratiche[8]. Abbiamo bisogno di usare parole dall’accento straniero per creare un effetto di fascinazione e per colmare qualcosa che non esiste nella pratica e forse questo è il vero delirio. Dovremmo avere il coraggio di fare autocritica e cominciare a lavorare seriamente per cambiare lo stato di cose presenti. Occorre volontà politica e volontà reale di cambiare le cose da parte di chi ha il potere di farlo. Tutto questo significa uscire dalla logica del carrierismo, della gratificazione professionale, dell’ambizione personale e dell’avventurismo politico, per entrare nuovamente in una dimensione di lavoro sul campo reale per dare una risposta diversa alla persona che soffre. Significa operare scelte coraggiose sul piano istituzionale, politico e operativo, facoltà questa che vedo scarsamente rappresentata nei quadri dirigenziali della sanità pubblica, pur con le dovute eccezioni. Io credo non si possa prescindere da un lavoro che riparta innanzitutto dalla formazione degli operatori, dall’università, e che consista nella possibilità di far esplorare pratiche e luoghi dove quotidianamente si costruisce salute mentale e questi luoghi non sono i luoghi sanitari ma i luoghi sociali. Uno psichiatra, uno psicologo o un infermiere in formazione non hanno bisogno di fare pratica in un servizio ospedaliero o territoriale che riproducano logiche sanitarie (cosi come un “malato di mente” non ha bisogno di un letto di ospedale). Perché questo sarà perfettamente funzionale alla riproduzione di un tecnico che lavora secondo quelle logiche. Uscire dai luoghi sanitari significa estinguerne la funzione sanitaria proiettandoli nel sociale in cui insistono. Significa cioè entrare nei luoghi del lavoro, della convivenza civile, nelle scuole, nelle piazze, nei quartieri, nei processi produttivi di un territorio per comprenderne la storia, la cultura, la biografia sociale. Noi dovremmo essere capaci di decostruire ogni cosa della scienza che abbiamo appreso: decostruirla nella pratica e ricostruirla a partire dalla realtà di ciò che sperimentiamo. Questo dovrebbe essere il lavoro di formazione delle nuove generazioni di operatori.

Un lavoro che forma alla prevenzione del disagio e non solo alla sua gestione e per questo avremmo bisogno di servizi di salute mentale permeabili, contaminabili, dove entrino attori sociali diversi, culture diverse, saperi diversi. Servizi che si estinguano nella loro vecchia funzione istituzionale e si costruiscano a partire dalle domande e dalle forme di sofferenza che il sociale porta loro[9]. Se penso a un servizio di salute mentale, penso a un laboratorio di pratiche sociali e non a un ambulatorio medico. Penso al coinvolgimento degli attori sociali più diversi (artisti, architetti, urbanisti, designer, musicisti, artigiani, progettisti, studenti, insegnanti, attori, registi, etc…) che lavorino assieme agli operatori per rendere il servizio qualcosa che “serva” al sociale, che sia utile alla sua riproduzione. Per questo io credo che non possiamo pensare di lavorare a una modifica della legge 180 o di proporre una nuova legge di riforma psichiatrica, quando le pratiche attuali ci riportano indietro di quarant’anni. Quando la formazione degli operatori è ancora quella di cento anni fa. Una formazione universitaria che sforna persone inusabili per lavorare nei servizi in senso alternativo, ma che è esattamente funzionale a riprodurre il sapere e il potere psichiatrico cosi come si è sempre esercitato. Quando i servizi sono quello squallore che attraversiamo nella nostra pratica quotidiana e quello squallore non è solamente lo squallore degli appartamenti protetti, delle residenze, dei CSM, dei centri diurni, dei reparti psichiatrici ospedalieri, ma è lo squallore delle condizioni in cui è costretta a vivere la gente. Perché la legge 180 è stata il frutto di un lavoro di lotta dentro e fuori le istituzioni e non un fulmine a ciel sereno. È stato un lavoro politico e pratico di negazione istituzionale dentro e fuori le mura dell’ospedale psichiatrico. Negazione del manicomio certamente, ma soprattutto negazione di tutto ciò che rappresenta(va) l’inerzia, l’abbandono, l’incuria, la marginalizzazione, l’esclusione, la miseria dei rapporti sociali. Perché una buona legge dovrebbe essere sempre il “prodotto” di una lotta politica e di una pratica, cioè di una trasformazione sociale e mai un dettato giuridico astratto che non tiene conto della realtà che la governa.

Su questo dovremmo lavorare se vogliamo veramente tornare a fare salute mentale: sulla miseria dei rapporti, su una società sempre più individualizzata e “asociale” come direbbe Castel[10] e sulle nuove forme contraddittorie della sofferenza individuale e collettiva. Ripartire da questo lavoro non significa ripartire da un’idea di sociale astratta come quella rappresentata dalla nuova “psichiatria comunitaria”, ma da un sociale concreto, fatto di soggettività, corpi e “istituzioni inventate”[11] che possano esprimersi e avere potere di tenere aperte queste contraddizioni. Immaginando nuovi scenari sociali, nuovi scambi e contaminazioni, nuovi luoghi di aggregazione, nuove possibilità di progettare il futuro di una nuova generazione. Pensando, infine, che lavoro, casa e rapporti sociali non siano punti di una proposta di programmazione ministeriale o dipartimentale, o assi di un percorso socio-riabilitativo, ma questioni aperte e concrete da affrontare politicamente, tecnicamente e socialmente perché ci riguardano tutti. E dovremmo avere il coraggio, come tecnici, di tornare a negare le istituzioni inutili e che fanno ammalare, di metterle in discussione e possibilmente distruggerle per aprire nuovi spazi di libertà. Io credo sia questa la strada per tornare a fare concretamente salute mentale e liberarci dalla psichiatria: quella psichiatria da cui proveniamo, ancor oggi, culturalmente e professionalmente. Quella psichiatria che, come tecnici che agiscono sul campo reale, dobbiamo continuare a negare come sapere che opprime e non libera, nelle sue istituzioni e nei rapporti che le fondano.

Note

[1] Riprendo la definizione di Recovery dello psichiatra William Anthony (il corsivo è mio): “Recovery è un processo profondamente e autenticamente personale di cambiamento dei propri valori, sentimenti, obiettivi, capacità, ruoli. E’ un modo di vivere la propria vita con soddisfazione, speranza ed iniziativa, malgrado la sofferenza e le limitazioni causate dalla malattia. E implica il recupero non solo di una condizione di maggior benessere, ma piuttosto di un nuovo senso della propria esistenza, che possa essere fatta evolvere al di là degli effetti catastrofici della malattia mentale.” Si veda: Anthony, W. A. (1993). Recovery from mental illness: The guiding vision of the mental health service system in the 1990’s., Psychosocial Rehabilitation Journal, 16(4), p. 11-23. Per una rassegna italiana sull’approccio della Recovery si veda: a cura di A. Maone e B. D’avanzo, Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina, 2015 e di A.A.V.V., Il recovery in psichiatria. Organizzazione dei servizi e tecniche operative, Erickson, 2012 ed infine: R.P. Liberman, Il recovery dalla disabilità. Manuale di riabilitazione psichiatrica, Giovanni Fioriti Editore, 2012.

[2] Mi riferisco all’esperienza degli U.F.E. (Utenti Familiari Esperti) inaugurata dal DSM di Trento, e a tutte le articolazioni che il movimento delle “Parole ritrovate” http://www.leparoleritrovate.com/ ha avuto negli ultimi 25 anni nel nostro paese. In molte altre realtà dipartimentali italiane (Ancona, Bologna, Cagliari, Palermo, Perugia, e negli ultimi anni Modena e Reggio Emilia con l’esperienza dei facilitatori sociali), si sono sviluppate esperienze che hanno seguìto o in parte ripreso con declinazioni diverse, il modello trentino. Per alcuni riferimenti bibliografici si veda: a cura di R. De Stefani e E. Stanchina, Gli UFE. Utenti e familiari esperti. Un nuovo approccio nella salute mentale, Erikson, 2010 e R. De Stefani, Psichiatria mia bella, Erikson, 2012.

[3] Ho usato non a caso il termine “malattia” perché ricorre molto spesso nelle discussioni e nel confronto tra utenti nei gruppi in cui ho avuto la possibilità di partecipare. Il mantenimento di questo termine per identificare la propria sofferenza rimanda evidentemente a qualcosa che non è stato superato culturalmente dalla pratica psichiatrica e sociale. La sofferenza è ancor oggi razionalizzata come “malattia” e la gestione di questa razionalizzazione è ancora fortemente radicata nella pratica e nella cultura dei servizi e dei suoi stessi fruitori (siano essi utenti o familiari).

[4] Si veda l’iter controverso e abbastanza lungo della proposta di legge n. 181 a firma dell’on. Ezio Casati e sostenuta dal movimento delle Parole ritrovate nato a Trento, oggi confluita nel ddl n. 2233 e che è possibile consultare qui: http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=17PDL0021750.

[5] Cosi come l’ideologia della comunità terapeutica di stampo anglosassone non riusciva a coprire le contraddizioni del manicomio durante l’esperienza goriziana di Basaglia e del suo gruppo.

[6] Nonostante il paradigma della Recovery si sia ormai imposto su quello della Deistituzionalizzazione, appare evidente che il cambio di cultura stia producendo più contraddizioni di quanto non si veda ad una prima analisi superficiale dei processi all’interno delle prassi dei servizi. Non sono perciò d’accordo con Benedetto Saraceno quando afferma che l’arricchimento del modello di Recovery, rispetto a quello della Deistituzionalizzazione (che fu in verità un antimodello) è dato da un processo più radicale di empowerment degli utenti. Se come egli sostiene: “Con il modello Recovery il paziente acquista una forte empowerment, però lascia che la psichiatria non sia più rimessa in discussione”, non si comprende da dove derivi lo stesso processo di empowerment. A meno di considerare l’empowerment come una condizione di mero sviluppo personale e individuale (una ripresa del potere individuale) che esula da processi di cambiamento collettivo di un dato sistema sociale o contestuale, di un’istituzione e di un sapere. Ma il potere individuale non si dà semplicemente per iniziativa personale, ma deve tener conto di una serie di vincoli (istituzionali, sociali, contestuali) che ne limitano e influenzano l’azione. Per cui il processo di cambiamento e potere personale non potrà mai essere esclusivamente individuale ma dovrà giocarsi all’interno di rapporti di forza che fondano le stesse relazioni di potere, cioè dovrà scaturire da un agire collettivo, da un atto politico. Per un confronto tra Recovery e Deistituzionalizzazione (da cui è tratta la frase sopracitata di Saraceno) si veda: B. Saraceno, Il Recovery per il futuro della psichiatria, Ricerca&Pratica, 2015; 31, p. 128-130.

[7] Mi viene in mente a questo proposito la sperimentazione promossa dalla ASL TO1 di Torino dell’approccio finlandese dell’Open Dialogue di Jaakko Seikkula (Dialogo aperto). Si tratta di un progetto di prevenzione sugli esordi sintomatologici (le prime crisi psichiatriche) di adolescenti e adulti che il Ministero della Salute ha approvato ed è stato esteso a diverse regioni italiane (Piemonte, Liguria, Marche, Lazio, Sicilia). Il progetto di sperimentazione ha come obiettivo la valutazione della trasferibilità (prassi operativa e organizzativa) di questo sistema di trattamento nei DSM italiani. Aldilà dell’efficacia e della validità che un simile approccio può avere nell’affrontare l’esordio di una sofferenza psichica e sul quale non ho motivo di dubitare, resta l’inquietante interrogativo su come sia possibile che i DSM italiani siano arrivati ad importare un modello di cura e di prevenzione della salute mentale dall’estero, in un paese che era all’avanguardia ed “esperienza pilota” in questo campo. Il sospetto, a mio avviso, che in Italia esista un vuoto di pratiche ormai consolidato da molti anni è più che fondato.

[8]A mia memoria l’unico serio tentativo di fare un’epidemiologia critica della riforma psichiatrica è una ricerca contenuta in un volume edito dalla Feltrinelli per la collana “Medicina e potere” diretta da Giulio Alfredo Maccacaro. Si veda: A cura di P.Crepet e D. De Salvia, Psichiatria senza manicomio, Feltrinelli, Milano, 1982. In quel volume oltre ai “numeri” fu proposta un’analisi estremamente interessante delle criticità, delle carenze, delle potenzialità e dei possibili sviluppi della pratica territoriale in un momento abbastanza difficile di avvio della riforma. Oggi mi pare invece che l’epidemiologia si preoccupi maggiormente degli aspetti economico/finanziari dell’organizzazione psichiatrica (bilanci, risorse, posti letto, ricoveri) senza analizzare a fondo le pratiche di questa organizzazione (soprattutto a livello qualitativo). Per me non ha senso un’epidemiologia delle risorse senza un’epidemiologia delle pratiche.

[9]Prendo spunto per queste mie considerazioni da un contributo di Vieri Marzi: “In questo campo (la psichiatria) la crisi dei paradigmi non si risolve attraverso l’emergere di un nuovo paradigma ma attraverso il paradigma della crisi. […] I servizi psichiatrici territoriali nei quali si costruisce quotidianamente la crisi del paradigma sono perciò il laboratorio di sperimentazione e di accumulazione di scoperte, della critica dell’ideologia psichiatrica e non, a condizione che scandiscano la loro quotidianità secondo il principio della disorganizzazione organizzata e della messa in questione dei rapporti sociali che incontrano. Che vuol dire criticare ogni forma di ovvietà, naturalità, inemendabilità, I servizi psichiatrici lavorano per la scienza e per le persone se lavorano per la propria estinzione. Dato che, come abbiamo visto, la psichiatria non esiste se non fuori da sè, così, sul versante operativo, l’agire del servizio non può essere altro che l’agire la propria distruzione costruendosi fuori da sè. Questo non è il discorso delle anti-psichiatrie che costruiscono ideologie della liberazione speculari e simbiotiche all’ideologia della repressione psichiatrica e che finiscono per fiancheggiare il manicomio senza intaccarne praticamente la logica e l’estensione.” in: “Vieri Marzi, Scritti scelti 1968-2001. Psichiatria, filosofia, politica, ed. Fuorionda, 2014, a cura di Cesare Bondioli, Alessandro Ricci, Maria Pia Teodori e Paolo Tranchina.

[10] R. Castel, Verso una società relazionale, Feltrinelli, Milano, 1982.

[11] Nel senso di Franco Rotelli. Si veda: F. Rotelli, L’istituzione inventata, pubblicato in: Per la salute mentale/for mental health, n.1/88, Rivista del Centro Regionale Studi e Ricerche sulla Salute Mentale – Friuli Venezia Giulia.