Categorie
Antipsichiatria Saperi

Il Dialogo Aperto

Vogliamo raccontare qui quest’esperienza non per elogiare istituzioni dal sapore “esotico” o per proporre l’ipocrisia di un “modello vincente” ma per testimoniare pratiche e saperi alternativi ai paradigmi dominanti. Non si vuole uccidere la vitalità del discorso legato all’uomo con “modelli” preconfezionati ma nutrire prospettive e pratiche con conoscenze rivitalizzanti.

Ogni assetto economico e socio-politico crea le sue sovrastrutture, le sue pratiche e i suoi saperi, sappiamo bene che l’Italia non è la Finlandia, non è la Lapponia, si tratta infatti di de-costruire i paradigmi economici e socio-politici che non ci permettono di liberare il potenziale umano che ci attraversa, di smettere di considerarli permanenti, immutabili, “naturali”.

__

Il dialogo aperto” è un sistema di “trattamento delle psicosi” sviluppato in Finlandia grazie al lavoro di Jaakko Seikkula. E’ utilizzato da molti anni nell’ambito degli interventi sugli esordi sintomatologici (primi eventi “psicotici”) di adolescenti e adulti, e consiste di incontri domiciliari che coinvolgono la famiglia e la rete sociale del “paziente” condotti da èquipe multi-professionali appositamente formate e organizzate.

Da una rassegna pubblicata su Science sui “trattamenti psicoterapeutici” efficaci per la schizofrenia, quello di Seikkula è l’unico a vantare una percentuale di “guarigione” dell’81% e ad aver dimostrato efficacia nel dirigere la sintomatologia “psicotica” in una direzione non contraddistinta dalla cronicizzazione, grazie a:

  • risposta di intervento immediata (entro le 24 ore dalla richiesta)
  • focus sul sistema relazionale (coinvolgimento del soggetto e del suo contesto sociale allargato es. familiari, amici, vicini ecc.)
  • non utilizzo dei farmaci neurolettici in tutti i casi in cui è possibile
  • enfasi sui bisogni profondi di cui i sintomi si fanno portatori e ricerca dei significati soggettivi della crisi

L’Open Dialogue di Jaakko Seikkula è la naturale conseguenza della gestazione di teorie e pratiche che risalgono alla fine degli anni ’60 in Lapponia, in particolare al “trattamento adattato al bisogno” di Alanen.

Il gruppo di ricerca diretto da Alanen iniziò a perseguire, sin dal 1968, l’obiettivo di sviluppare un modello di “trattamento psichiatrico” pubblico destinato a “pazienti schizofrenici” e alle loro famiglie caratterizzato da estreme adattabilità e flessibilità di metodi e strumenti: l’idea di una terapia “su misura” e “personalizzata” per le “psicosi schizofreniche” emergeva a partire dalla constatazione della radicale eterogeneità delle forme cliniche della “schizofrenia” e dalla necessità di integrare tipologie di interventi prima ritenuti antitetici.

Negli anni 1981-1987 nell’ambito del Finnish National Schizophrenia Project, un programma nazionale per lo sviluppo e lo studio del “trattamento” e della “riabilitazione” dei “pazienti schizofrenici”, si tentò con successo di applicare il modello di Alanen a comunità psichiatriche sempre più ampie. I risultati si dimostrarono ampiamente positivi: una ricerca relativa ai “pazienti” con un primo episodio psicotico tra il 1983 e il 1984 evidenziò che al follow-up di cinque anni il 61% era asintomatico e solo il 18% persisteva in una condizione di “disabilità”.

A partire da quel momento la pratica psicoterapeutica in Finlandia diventò parte integrante del sistema di cura pubblico: la tradizione inaugurata da Alanen condusse alla trasformazione del sistema psichiatrico tradizionale in un sistema aperto, orientato alla persona, centrato sulla famiglia e sulla rete sociale.

Questo processo di cambiamento, lento ma radicale, non fu immune da errori e delusioni: i tentativi iniziali di praticare psicoterapia familiare in un setting ospedaliero si rivelarono del tutto fallimentari fino a quando il team iniziò ad organizzare incontri aperti il giorno stesso del ricovero a cui partecipavano tutti i “professionisti” coinvolti, il “paziente” e le persone che lo avevano accompagnato. Aprire i confini ospedalieri, tradizionalmente rigidi e chiusi, permise agli attori del “trattamento” (il paziente e la famiglia) il passaggio da un “trattamento subìto” (e spesso con scarso coinvolgimento e partecipazione) a un “trattamento condiviso” in cui ognuno era chiamato a offrire il proprio contributo.

Il nuovo sistema creato dal lavoro congiunto di ospedale e famiglie offriva grandi opportunità di crescita e cambiamento: quando due sistemi (ospedale e famiglia – ospedale, individuo e rete sociale) si incontrano, diventano necessariamente legati alle stesse leggi sistemiche, entrambi si devono impegnare ad accomodare il proprio comportamento a quello dell’altro in un processo di mutua co-evoluzione (Maturana, 1988). 

Da queste premesse si è strutturato nella Lapponia occidentale un approccio con caratteristiche proprie chiamato “Dialogo Aperto”.

L’obbiettivo del Dialogo Aperto è quello di ridurre le ospedalizzazioni: piuttosto che sradicare il “paziente” dal proprio sistema sociale, la situazione di crisi viene osservata “in vivo” nell’ambiente naturale in cui ha avuto origine, al domicilio del “paziente” e alla presenza di tutti coloro che avendo contribuito all’emergere dell’esperienza psicotica, possono diventare partner attivi del “processo di cura”. Il nucleo familiare esteso non è l’oggetto bensì l’agente del cambiamento sin dal principio.

Anderson e Goolishian (1988) considerano i problemi come costrutti sociali nati e riformulati continuamente nelle conversazioni e poichè chi osserva un problema diventa parte del problema stesso, la crisi è risolta solo quando tutti coloro che lo hanno nominato tale cessano di riferirsi ad esso come ad un problema e tale riformulazione può avvenire solo all’interno della conversazione comune.

Il Dialogo Aperto si serve di 6 equipe mobili di intervento sulla crisi (per una popolazione di 72000 abitanti) incaricate di organizzare e condurre “l’intervento” per ogni nuovo caso di “esordio psicotico”.

E’ bene sottolineare come il Dialogo Aperto, pur mantenendo l’originale interesse per i “pazienti schizofrenici”, non si possa considerare un trattamento diagnosi-specifico e venga utilizzato oggi per una molteplicità di problematiche diverse.

Il Team  per ciascun caso è composto da un “gruppo multi-professionale di operatori” (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, infermieri…). Ad ogni  nuova richiesta di aiuto si organizza il primo incontro al domicilio del “paziente” entro 24 ore dalla richiesta stessa. Chi riceve la telefonata si occupa di costituire l’equipe che dal primo incontro si assume la responsabilità di accompagnare la persona per tutto il tempo necessario alla soluzione della crisi e in qualsiasi setting (se è necessaria una fase di ospedalizzazione il medesimo team di operatori si occuperà di condurre incontri di dialogo aperto nel reparto ospedaliero).

Offrire un aiuto immediato e tempestivo permette di ridurre notevolmente il periodo di “psicosi non trattata” (DUP), cioè l’intervallo di tempo che intercorre tra l’insorgenza e l’inizio di un “percorso di cura”. Questo intervallo di tempo prima dell’implementazione del Dialogo Aperto ammontava in media a 12-13 mesi. Nei primi anni ‘90, successivamente all’introduzione del metodo del Dialogo Aperto, è sceso a 4,2 mesi e nel 2000 si è ulteriormente ridotto a 15 giorni. La riduzione del “DUP” permetteva la non radicalizzazione dei sintomi psicotici e la drastica riduzione della cronicizzazione in una “disabilità”. 

Secondo gli attuali manuali di riferimento (DSM-5) per porre “diagnosi di schizofrenia” è necessario che i sintomi perdurino per un periodo di almeno 6 mesi. Questa “diagnosi” in terra lappone sta gradualmente estinguendosi perchè nella maggior parte dei casi i sintomi vanno incontro a un netto miglioramento nel corso dei primi sei mesi, prima che sia possibile attribuire una diagnosi di psicosi. 

L’obiettivo dei “professionisti” durante gli incontri è quello di far emergere, nello spazio di dialogo tra i partecipanti, una nuova rappresentazione della situazione problematica e un linguaggio co-costruito e condiviso per esprimerla. L’intenzione non è quella di trovare vincitori o soluzioni ai problemi, ma quello di aprire nuove prospettive (Seikkula, 2014), creandole nel dialogo. Nessun operatore si presenta come il detentore esclusivo di un sapere che investe unidirezionalmente la famiglia dall’esterno. Il compito dei “professionisti” è quello di ascoltare, rispondere alle comunicazioni dei “clienti”, permettere a ciascuno di esprimere la propria voce, la propria opinione promuovendo la sensazione di essere co-autore del percorso di cura.  

Non esistono riunioni di équipe separate in cui “pianificare” la “cura del paziente” e tutte le decisioni inerenti il “trattamento” vengono prese all’interno degli incontri da parte di operatori e familiari. Le discussioni sono aperte e trasparenti e ciascun partecipante è autorizzato ad esprimersi. Quello che accade, a livello relazionale, è molto più di una autorizzazione all’espressione, è una vera e propria legittimazione e responsabilizzazione: il “paziente” e le persone a lui vicine hanno il diritto di costruire il proprio percorso di “cura” e sono le persone che, più di tutte, possiedono le conoscenze e le risorse  per affrontare le proprie difficoltà.

Il rovesciamento di paradigma che è avvenuto nella Lapponia si può riassumere con le parole di Birgitta Alakare: “Ci siamo specializzati nel dire che non siamo degli specialisti” (Whitaker, 2013). Non essendoci più degli specialisti non esistono nemmeno modalità standard di pianficare il trattamento, non esistono step prestabiliti da seguire; gli sforzi terapeutici sono tutti volti ad una negoziazione dei significati e ad un adattamento sia al modo in cui i “clienti” fanno esperienza della crisi, sia ai significati che questa assume per ciascuno. Per fare questo è necessario un profondo lavoro da parte dell’équipe teso alla tolleranza dell’incertezza, valore ritenuto fondamentale, rispetto alla capacità di offrire soluzioni preconfezionate. Il compito dei “terapeuti dialogici” è quello di restituire ai “clienti” la capacità di riprendere in mano la propria vita, il senso di “agentività” e la possibilità di plasmare il proprio destino, tutte funzioni che il nucleo familiare scivolato nella spirale psicotica ha perduto.

Il concetto di psicosi cui fanno riferimento gli ideatori del Dialogo Aperto (e che si sta diffondendo grazie ad essi in Finlandia anche tra i non addetti ai lavori) è piuttosto diverso da quelli predominanti che afferiscono ai paradigmi strettamente biologici e affonda le sue radici nella tradizione scandinava delle psicosi psicogene (Wimmer, Stromgren, Retterstol).

Questo termine indica una “psicosi clinicamente indipendente (distinta dalla schizofrenia e dalla psicosi maniaco depressiva) causata da fattori mentali o traumi emotivi, generalmente su un terreno predisposto; tali traumi determinano l’insorgenza, il decorso e la fine della psicosi la cui forma e i contenuti riflettono il trauma in modo significativo, più o meno direttamente e comprensibilmente” (Wimmer, 1913).

In un’intervista con lo staff del Keropudas Hospital di Tornio del 10 Settembre 2009, Tapio Salo sostiene che:

la psicosi non è qualcosa che hai nella testa; è qualcosa che esiste nella zona di confine tra i membri di una famiglia o tra i membri di un piccolo gruppo. E’ qualcosa che esiste all’interno di queste relazioni: la persona che diventa psicotica rende percepibili tutti questi aspetti negativi. E’ come se indossasse l’abito sintomatologico e prendesse su di sè gli oneri che ciò comporta

(Whitaker, 2013)

In questa concezione, la “schizofrenia” perde i caratteri della “malattia” diventando una risposta “naturale”, una modalità singolare e certamente tragica di affrontare un evento di vita alienante e terrificante, la risposta ad un trauma che non è possibile significare nè verbalizzare e che ha trovato  come unica forma di espressione i “sintomi psicotici”. E’ l’esperienza di una totale frattura del discorso interno che si ripercuote verso l’esterno e viceversa: quanto più il pensiero diventa frammentato tanto sarà difficile per il soggetto instaurare relazioni significative. All’isolamento che ne deriverà corrisponderà un’ ulteriore frammentazione della persona.  La comunicazione si interrompe.

Per Bateson (1977) in quel particolare linguaggio che è il “guazzabuglio schizofrenico”, il “paziente” sta descrivendo una situazione traumatica che comporta un groviglio metacomunicativo. Il “sintomo” rappresenta in tale contesto l’ultima possibilità espressiva del soggetto, la riattualizzazione metaforica della sua esperienza. Cogliere la portata comunicativa, e la costruzione di significato di cui il “sintomo” si fa veicolo, permette agli operatori e alla comunità di costruire delle rappresentazioni di tali tipi di esperienze che guideranno verso determinate direttrici la strutturazione degli interventi e conseguentemente dei servizi.

Tamponare il sintomo, soffocare le voci, amputare “l’esperienza psicotica” non rappresentano la priorità in questo tipo di approccio e il farmaco assume un nuovo ruolo. Se da una parte gli operatori non avvertono il bisogno di soffocare il sintomo, dall’altra l’utilizzo del farmaco non viene neanche escluso aprioristicamente. Il trattamento farmacologico viene considerato come una delle possibili traiettorie dei percorsi di cura, possibilità che, al pari delle altre, diventa oggetto di un confronto dialogico, senza venir imposta. In maniera prioritaria si cerca di ripristinare il sonno del “paziente” e di attenuare il suo stato d’ansia, somministrando ipnoinducenti e benzodiazepine. A volte si ritiene necessario l’uso di antipsicotici, sempre a basse dosi. Dal punto di vista pratico quando, durante un incontro dialogico, viene evocata la possibilità di iniziare una terapia antipsicotica, devono passare almeno tre incontri in cui sia possibile riflettere su questa alternativa, prima che si possa prendere una decisione e iniziare, eventualmente, l’assunzione.

Nella realtà clinica solo in un  terzo dei casi si decide di inziare un trattamento farmacologico, sempre con l’intenzione che tale trattamento sia il più breve possibile. Le valutazioni a lungo termine sui “pazienti trattati” nel periodo 1992-1997 hanno evidenziato che a cinque anni, il 79% dei pazienti era asintomatico e l’80% lavorava, studiava o era alla ricerca di un lavoro. Solo al 20% era stata assegnata una pensione di invalidità. Di tutti questi “pazienti”, circa i due terzi (67%) non avevano mai seguito una terapia con antipsicotici, il 33% ne aveva fatto solo un uso breve ed occasionale, e solo il 20% aveva assunto e proseguito regolarmente la terapia (Seikkula et al., 2006).

Questi risultati sono rimasti stabili lungo un periodo di oltre dieci anni: lo studio più recente, condotto nel periodo 2003-2005, ha valutato specificatamente la stabilità dei risultati ottenuti all’interno del periodo complessivo di utilizzazione dell’OD in Lapponia (1992-2005), sottolineando che oltre il 70% dei pazienti non ha avuto neanche una ricaduta in questo periodo. Contrariamente a quanto consigliato dalle linee guida italiane per il trattamento della “psicosi”, quindi, in fase iniziale il trattamento farmacologico viene evitato: durante i primissimi giorni di crisi sembra possibile parlare di cose di cui è difficile invece discutere  in seguito,

le allucinazioni possono essere affrontate e prese sotto esame, e questa opportunità di parlarne non riappare poi successivamente, se non dopo molti mesi di terapia individuale. E’ come se la finestra su queste esperienze estreme rimanga aperta solo per pochi giorni (i primi)

(Seikkula, 2014)

Questo nuovo ruolo assegnato alla farmacoterapia non sembra affatto diminuire l’efficacia dell’OD rispetto ad altri metodi psicoterapeutici. In un recentissimo articolo apparso su Science, Michael Balter (2014)  propone una breve rassegna di dieci studi che riassumono lo stato dell’arte dell’efficacia psicoterapeutica dei vari approcci alla “schizofrenia”: accanto ad una moderata efficacia della psicoterapia psicodinamica (Rosenbaum et.al, 2012) o della psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Morrison et al., 2014; Grant et al., 2012; Van der Gaag et al., 2012), quasi sempre associate al trattamento farmacologico tradizionale, l’autore cita il lavoro di Seikkula e collaboratori (Seikkula et al., 2011), che, tra i dieci presi in esame, è l’unico a vantare una percentuale di guarigione dell’ 81% con un ridottissimo utlizzo di farmaci antipsicotici.

Gli effetti dei cambiamenti introdotti all’interno del sistema psichiatrico con l’OD hanno però portata ben maggiore, una portata che investe, come è stato detto, le rappresentazioni stesse della psicosi, della cura e che colora anche i rapporti tra la cittadinanza e “esperti”. La sollecitudine dei “servizi”, la possibilità di muoversi dentro un registro cooperativo da questi promosso, la completa trasparenza dei processi decisionali, la consapevolezza che la propria domanda sarà, in ogni caso, presa in carico, genera un circolo virtuoso in cui l’”esperienza psicotica”, non viene vissuta come qualcosa da nascondere o negare, quanto un problema come altri, da gestire, che può trovare una risposta concreta, immediata, flessibile e realmente centrata sui propri bisogni. I “servizi” e gli “esperti” sono quindi interpellati in prima istanza e non rappresentano più l’ultima spiaggia nella deriva individuale e familiare.

L’OD sembra andare nella direzione di una riapproriazione della salute da parte della comunità, resa possibile solo grazie alla cessione, da parte del sistema medico, di una quota del proprio potere, contrariamente a quella che Illich definiva “l’espropriazione della salute” (Illich, 2005) del sistema medico e che descriveva come uno dei risultati della iatrogenesi sociale ovvero da quel processo generato dall’espansione pervasiva della medicina che porta l’ambiente ad essere privato delle condizioni che permettono agli individui, alle famiglie e alle comunità di occuparsi autonomamente della propria salute.

Il sistema OD al contrario cerca di restituire alla famiglia, alla rete sociale e alla collettività il potere di co-determinare il proprio “percorso di cura” riappropriandosi di una parte di quel potere contrattuale che per Basaglia era precluso ad alcuni, in un rapporto di sopraffazione e di violenza tra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere.

La psicosi, cessando di essere un attributo del soggetto, per collocarsi nello spazio tra i membri di una famiglia o di un piccolo gruppo, viene fronteggiata da tutti i membri del sistema che ne determinano la comparsa e non è più un attributo dell’individuo, ma del sistema – famiglia. E’ questa gestione sinergica, non solitaria, che permette di affrontare e superare la “malattia”. Superarla concettualmente anche. La “psicosi” cambia faccia: la persona e la famiglia possono riemergere dall’esperienza traumatica e  continuare a condurre una vita il cui funzionamento sociale può non essere inevitabilmente compromesso da una “diagnosi” che non ammette dialogo e da un sistema strutturato per cronicizzazione farmacologicamente ed escludere.

Una reale prevenzione ha come obiettivo la promozione della salute nella e della comunità, non può coincidere semplicemente con la riduzione delle conseguenze negative della malattia o della crisi attraverso l’identificazione tempestiva, ma consiste in politiche che promuovano un ambiente che favorisca in tutti, e specialmente nei più deboli, la fiducia in se stessi, l’autonomia, la dignità e capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile (Illich, 1976).

Dialogo Aperto

RIFERIMENTI 

  •  https://www.stateofmind.it/2015/06/psichiatria-open-dialogue/ 
  • ALANEN ,Y.O.(2005), La schizofrenia. Le sue origini e il trattamento adattato al bisogno. Giovanni Fioriti Editore, Roma.
  • ANDERSON, H., GOOLISHIAN, H. (1988) A view of human systems as linguistic systems: some preliminary and evolving ideas about the implications for clinical theory. Family Process, 27: 371-393.
  • BALTER, M. (2014) Talking Back to Madness. Science, Vol. 343 no. 6176 pp. 1190-1193
  • BASAGLIA, F.(1968), L’istituzione negata. Baldini Castoldi Dalai, Milano.
  • BATESON, G.(1977), Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
  • BOURDIEAU, P.(1980), Le Sens pratique. Minuit, Paris.
  • ILLICH, I.(1976), Medical Nemesis. Trad. it. Nemesi medica. L’espropriazione della salute. (2005) Boroli, Milano.
  • KLEINMAN, A.(1978), “Cultural Construction of clinical reality: comparison of practitioner-patient interaction in Taiwan”.In KLEIMAN, A. ET AL. (a cura di), Culture and Healing in Asian Societies. Shenkman, Cambridge, Massachusetts.
  • MATURANA, H.(1988) Reality: the search for objectivity or the quest for a compelling argument. The Irish Journal of Psychology (Special Issue), 9: 144-172.   
  • SEIKKULA J., AALTONEN J., ALAKARE B., HAARAKANGAS K., KERANEN J., LEHTINEN K.(2006). Five-year experience of first-episode non-affective psychosis in open-dialogue approach: Treatment principles, follow-up outcomes, and two case studies. Psychotherapy Research 16,  2, 214–228.
  • SEIKKULA, J.(a cura di Chiara Tarantino) (2014) Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche. Giovanni Fioriti Editore, Roma.
  • WHITAKER, R.(2013), Indagine su un’epidemia. Giovanni Fioriti Editore, Roma
  • WIMMER A.( tradotto da Schioldann, J.) (2003) Psychogenic Psychoses. Adelaide Academic P