Categorie
Antipsichiatria Testimonianze

Storia di M.

M. non ha tenuto sempre la testa giù.

“M. tieni su la testa!” quante volte.

M. tiene giù la testa perché prende un sacco di farmaci psichiatrici, da molto tempo: neurolettici, antipsicotici, stabilizzatori dell’umore, antidepressivi, ansiolitici, di ogni sorta, marca e dosaggio.

Che ne hanno fatto, di “quella testa”, non è dato sapere.

E’ per questo che M. tiene giù la testa.

___

M. Non ha avuto sempre questa postura. Una volta era un ragazzo energico, di molto più “abile” e presente a se stesso. Così lo raccontano tutti.

M. pare sia nato con un’insufficienza mentale ma più dettagliatamente non è dato sapere.

(Non ci interessa qui discutere la natura biologica/organica o psico/sociale della sua fragilità  ma soltanto comprendere ciò che M. è, i bisogni che esprime e le possibilità  di una vita che ha diritto di essere storicamente vissuta e non espropriata della sua soggettività).

Da quanto emerge dalle carte e dai racconti M. a scuola aveva l’insegnante di sostegno. La sua famiglia è da sempre “seguita” dai “servizi” “sociali” e di “salute mentale”: paesino di provincia, nucleo problematico, pochi soldi, vino, padre padrone, “donnaiolo”, violento, madre “borderline”, seguita anch’essa dai “servizi” e sotto “terapia”.

M. ha due fratelli, due sorelle e due nipoti. Di tutta la sua famiglia oggi vede unicamente i genitori, che una volta al mese lo vanno  a trovare nella struttura dov’è “inserito”, e di tanto in tanto uno dei suoi fratelli,  “ospite” di una struttura legata alla sua. Rarissimamente vede la sorella che gestisce le sue finanze.

M. può capitare che racconti di una violenza sessuale subita da un signore del paese. Secondo i “servizi” il racconto è “verosimile”. Di fatto non c’è nessun motivo di credere che non sia “vero”, non solo per la sincerità e la tragedia con cui M. può capitare che si sfoghi ricordandosi dell’episodio, che non lascia spazio a dubbi sulla “veridicità ” del racconto, ma anche solo per la considerazione che se per M. è accaduto deve esserlo necessariamente anche per noi. Non capita spesso ma nei momenti in cui M. soffre, nelle sue crisi di pianto, può tornare a raccontare di quest’evento traumatico. Oggi questa persona è morta e quando capita che M. ne riparli, ricorda sempre che questa persona non c’è più, che è dove si merita, all’inferno.

Nel racconto che M. fa di sé, l’infanzia, la famiglia, gli eventi, i luoghi, gli oggetti, la musica che l’hanno caratterizzata, rivestono ancora un significato affettivo importante, attuale, eppure oramai sono anni che M. non ha l’opportunità  di tornare a visitare i suoi luoghi,  pur chiedendolo a gran voce. Gran parte dei suoi “loop ossessivi” girano intorno ad “oggetti” (inteso qui proprio in senso psicodinamico*) del suo passato, della sua infanzia, ad indicare una “fissazione adolescenziale”.

M. non è mai stato “autonomo” nella vita e se un’ “autonomia” l’ha sperimentata è stata proprio da ragazzo, quando era libero per il paese, quando poteva muoversi tra i suoi luoghi. Narrata in questo modo diventa più facile comprendere questa “fissazione adolescenziale”, ciò che esprime.

Da quando è entrato nei circuito dei “servizi”, i “servizi” si sono presi tutto di lui, finanche la sua soggettività.

Crisi di pianto caratterizzano le giornate di M., che alterna momenti in cui tutto torna “possibile” a momenti di vera angoscia e tragedia, crisi che esprimono un “disagio” che chi è accanto a lui non è disposto ad accogliere in un “discorso” con la sua legittimazione ontologica.

M. sa che tutte le sue aspettative non saranno prese sul serio da chi si “occupa” di lui.

Chi si relaziona con M. subisce l’ossessività  della sua comunicazione, la sua invadenza, la costante incessante richiesta di rassicurazione e attenzione, di relazione e affettività.

Oltre ad essere proiettato sul passato, M. è anche proiettato sul futuro, e come tutti, sogna l’amore.

Vorrebbe uscire. Andare a ballare.

Oggi M. ha circa quarant’anni.

I suoi “loop” possono mettere a dura prova chi è accanto a lui e tutto il “trattamento” su M. si basa sull’istituzionalizzazione in un sistema di gestione doppiamente “contenitiva”:

  • contenzione del quotidiano: fatto di regole e tempistiche poco disponibili ad essere negoziate. 
  • contenzione farmacologica: gestione delle “ansie” tramite farmaci. 

Le sue fragilità sono escluse dalla possibilità  di inserirsi in un “discorso” di senso e legittimità .

Uno dei “loop ossessivi” cardine di M. è il chiedere costantemente se la sua condotta è stata buona o meno. Lo chiede a ogni ora del giorno, costantemente, e ogni “conflitto” con operatori e compagni può sprofondarlo nella più cupa apprensione per la paura di non essere “stato bravo”.

M. non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui non chiedeva costantemente “se era o non era stato bravo”. La preoccupazione circa la sua condotta ha assunto oggi un carattere veramente abnorme e pervasivo, e se questa non è una distorsione istituzionale non sappiamo davvero in che modo altro chiamarla.

Viene da chiedersi: cosa rimane oggi di M.? Sotto tutti quei farmaci. Cosa rimane oggi di M.? Sotto tutte quelle distorsioni istituzionali cristallizzate in stereotipe?

Questa richiesta costante di rassicurazione sulla sua condotta si riferisce al bisogno che M. ha di sentirsi riconosciuto, amato, ritenuto accettabile e “adeguato”. All’interno dell’istituzione dov’è “inserito” l’unico modo che ha trovato per sentirsi “amato” è quello di essere “bravo”, “adeguato” rispondente alle richieste dell’istituzione h24.

Per contro, l’unico modo che ha per essere “ascoltato” è agire “comportamenti problema”, perché finché rispondi all’istituzione adeguandoti, nessuno prenderà “in carico” le tue richieste.

M. infatti non è sempre “bravo” e l'”aggressività” che di tanto in tanto manifesta è sempre relativa a rivendicazioni circa cose che potrà o non potrà fare.

Eppure l’ossessività che lo contraddistingue racconta di un nucleo d’ansia, di una tensione affettiva che non trova altro modo di gestirsi, esprimersi, contenersi se non girando intorno ad alcuni “canali” che M. è riuscito a costituire per non “perdersi” del tutto.

L’ossessività  di M. è una soluzione, non un sintomo. Una soluzione che serve ad M. per reggere l’urto di un’emotività  turbolenta e profondamente abitata da “oggetti” che non trovano possibilità di espressione.

E non ha tutti i torti.

Che ne rimane di un uomo senza storia e senza prospettive? Senza aspettative? Senza progetti, desideri?

C’è chi dice di lui: E’ come un lavandino senza tappo, è inutile riempirlo, non si ferma mai niente.

Soddisfatto un desiderio, ne vuole un’altro.

Sperano che M. si accontenti delle briciole che gli vengono lesinate, della loro vita fatta di orari, mansioni, comandi, ordini e negazioni, della loro vita senza passato e senza futuro. In questo senso M. è più sano di loro.

Nessuno sforzo di inserire ciò che M. esprime in un discorso legittimo, in una narrativa storico-biografica. Significati M. ne porta ma nessuno accanto a lui ha voglia di inserirli in schemi di senso.

“E’ un lavandino senza fondo”

Non è così. M. non è un lavandino senza fondo. M. conserva una capacità  di leggere se stesso e il suo ambiente. Principalmente il suo più grande problema è il non avere accanto nessuno che rivendichi assieme a lui la legittimità del suo “discorso”.

Il declino principale del tono vitale e della presenza significante di M. ha un suo momento e una sua causa ben precisa.

C’è stato un momento della vita in cui M. si è visto costretto a subire un brusco cambio della “terapia” a causa di una modifica legale relativa al farmaco antipsicotico che i “servizi di salute mentale” gli somministravano: da quel momento il farmaco assunto da M. diventava indicato unicamente per il trattamento della “schizofrenia resistente”, etichetta in cui lui non rientrava. Da un giorno all’altro, nel giro di un mese, il farmaco che ormai si era strutturato con la sua “identità” e “funzionalità” gli veniva improvvisamente tolto, finché “schizofrenico” M. per un certo tempo lo diventò davvero: prese a vedere intorno a lui lavori e ristrutturazioni inesistenti, muratori in camera e per le strade, palazzi rotti. Vere e proprie allucinazioni e paranoie di ogni sorta, deliri di avvelenamento a carattere persecutorio.

Inserite in questo discorso le sue “allucinazioni” assumevano un carattere profondamente legittimo: a fronte di una destrutturazione interna lui vedeva una destrutturazione esterna. Concretizzava visivamente ciò che sentiva accadere dentro di lui. I deliri di avvelenamento e persecutori potevano facilmente riferirsi ad una rivendicazione altrimenti non ammissibile e verbalizzabile: che cosa mi state facendo!?

Il suo psichiatra per non prendersi la responsabilità di ciò che aveva fatto di M. fino a quel momento, lo  consegnava  ad uno scompenso chimico che non si può immaginare. 

M. anche in quei momenti, nonostante lo “scompenso”, continuava a conservare una certa consapevolezza di sé, e più che le allucinazioni, ciò che davvero lo “allarmava”, era quello che gli stava accadendo e la paura reale di diventare “matto”. 

Questo ci dice che M. anche nei momenti di maggior sofferenza riusciva a conservare una consapevolezza di sé e degli eventi, nonostante le “allucinazioni” e lo “scompenso”.

Stabilizzata una nuova “terapia” ecco un nuovo M. Con la testa in giù dai farmaci, stereotipato e devitalizzato.

Con la testa in giù dall’istituzione che non ha saputo riconoscergli e riconsegnargli nessun tipo di soggettività.

Cosa rimane di M.? Della sua storia? Dei suoi desideri?

Secondo l’istituzione espropriare M. da se stesso e dalla sua storia è la soluzione per il suo “bene”. Per “tutelarlo”. Per “contenerlo”, “proteggerlo” ma nel fare ciò l’istituzione in realtà protegge se stessa e la società da qualcosa che non ha la volontà  di guardare e la forza di affrontare. 

E’ difficile oggi individuare M. sotto tutti i farmaci e sotto tutte le stereotipie che l’istituzione gli ha inculcato.

Oggi non ci si relaziona più con M. ma con ciò che l’istituzione ha fatto di lui.

 

___

* In psicodinamica, un oggetto è l’obiettivo finale di un investimento libidico, attraverso il quale un individuo riesce a scaricare la propria pulsione, raggiungere piacere o più  generalmente stabilire una qualsiasi forma di relazione.